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Una parola, un’immagine

23 Agosto 2021

Giacomo Stanga

Marco D’Agostin, gettando uno sguardo retrospettivo sulla sua carriera e sulla sua formazione, ci racconta di aver iniziato a danzare soltanto a 20 anni; fino ai 17 è stato sportivo d’élite, cimentandosi nello sci di fondo e nello Skiroll – gli è rimasta in quella artistica, constata, l’abitudine alla marginalità della sua disciplina sportiva – , e solo dopo quasi 4 anni di stop totale si è rimesso in gioco, cominciando la formazione che l’ha portato oggi a essere autore e performer. Sia questo iato, durante il quale la sua voglia e le sue aspettative hanno poi portato a una vera e propria esplosione di energia nei suoi primi lavori, sia le esperienze precedenti del suo corpo, che gli hanno lasciato una struttura fisica alterata (non da ultime 3 – poi 4 – ernie del disco) e dei limiti attorno ai quali ha dovuto ricostruire la  sua struttura di danzatore, lasciano tracce indelebili e fondamentali nel suo stile e nel suo modo di pensare, imbastire e portare in scena le sue opere.

 

Come spesso capita nelle materie intimamente poetiche, proprio i limiti e le restrizioni imposte sono i punti di snodo dove l’artista agisce più liberamente, e D’Agostin ha fatto del paragone con la gara e con l’ambiente competitivo un punto di forza, un metodo di lavoro – alla fine del suo spettacolo il performer è stravolto, esaurito anche fisicamente, e nelle modifiche fisiologiche della stanchezza (oltre all’istintiva empatia) il pubblico sente una connessione particolarmente forte, quasi un coinvolgimento diretto nello sforzo che gli viene presentato – e infine, con questo spettacolo, un vero e proprio tema al centro della scena. In First Love, infatti, il corpo del performer utilizza il modo in cui si è formato e il ricordo di quel tipo di fisicità per traslarli dal loro ambiente d’origine (la montagna) a un nuovo spazio d’azione (la scena): da una parte il lavoro sul ritmo di sciata e la ricerca dei pattern nascosti nei movimenti appresi, per portare esplicitamente lo sci di fondo davanti al pubblico, dall’altra una ricerca sul corpo che si ricorda dei paesaggi, che si fa albero, neve, pista e permette di uscire dalla grafia per dipingere un’impressione, una sensazione altrettanto familiare e nostalgica ma più sottile, delicata.

 

La gara che il danzatore riproduce sul palco è quella, epica, di Stefania Belmondo alle olimpiadi di Salt Lake City, e a ricordarcelo è soprattutto la voce, che ripercorre l’altrettanto epica telecronaca di quell’evento, iscritta nella mente di D’Agostin da innumerevoli visioni della vecchia cassetta sulla quale continuamente torna per fascinazione prima e per lavoro poi. L’autore aggiunge che il gioco con la voce (che è tornato a inserire nei suoi spettacoli grazie a molte influenze che, durante la sua formazione, gli hanno insegnato a non diffidare dell’ibridazione e della sperimentazione, purché sul palco ci sia uno scambio di energia tra performer e pubblico) è molto legato all’infanzia, all’imitazione ironica, al camuffamento, e che il testo è anche una reminiscenza del momento della visione della gara, una voce che proviene più dal ricordo soggettivo, contribuendo al taglio nostalgico che ammanta, proprio come la neve, tutto lo spettacolo: sì perché, dal racconto dell’agone sportivo, si viaggia nella direzione appunto del primo amore, del segno che lascia in noi la prima grande passione, il primo àmbito in cui ci capita di investire con totale abnegazione tutti noi stessi e tutte noi stesse. Parafrasando le parole dello stesso autore, in ogni persona troviamo temi ricorsivi, come dei ritornelli, dei quali serve prendere consapevolezza e, alla resa dei conti, l’unica via per liberarsene sarà quella di distruggere la canzone; ma la distruzione non è mai fine a sé stessa, anzi, va a braccetto con la presa di coscienza del fatto che quella canzone, quel tema, quel primo amore ancora ci appassiona e ci commuove con rinnovate modalità e intensità diverse.

 

In conclusione riprendiamo, per condividerla con la medesima convinzione, la riflessione di D’Agostin dalla quale è estrapolato il titolo di questo scritto: parlando del suo approdo al Festival, inaspettato visto il tipo di spettacoli che egli solitamente scrive e interpreta, ci ha rivelato di essere particolarmente contento proprio perché l’incontro tra due realtà così simili eppure a volte così distanti gli sta molto a cuore, ed è convinto sia di andarsene lasciando qui un qualcosa, sia di portare altrove qualcosa di qui; fosse anche solo una parola, un’immagine.

 

Anche a tutte e tutti voi, lettori e lettrici, speriamo che, dopo il ritorno del pubblico a teatro, questo ritorno del teatro tra il pubblico, nei paesi, nelle vite abbia lasciato una traccia, una sensazione: come se, per stare bene insieme ed essere felici di ogni piccola cosa, a volte bastasse esprimere un desiderio e contare fino a tre.