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«Dare qualche strumento per capire» : conversazione con Alessandro Sesti su Ionica

21 Agosto 2022

Giacomo Stanga

Sul finire del 2018, grazie a un evento organizzato in Umbria dalla rete Libera: associazioni, nomi e numeri contro le mafie e alla fondamentale mediazione di Alfonso Rossi, Alessandro Sesti incontra Giuseppe Dominijanni e viene a conoscenza della storia della sua famiglia. L’attore stava già raccontando fatti di cronaca con Fortuna, spettacolo che raccontava la terribile storia della piccola Fortuna Loffredo, ed era da tempo attivo nelle associazioni di lotta alle mafie: anche da qui l’immediato interesse per la storia di quella famiglia e di quell’impresa che, soffocate da anni di soprusi delle cosche, hanno avuto il coraggio di testimoniare e ne stavano scontando il prezzo.

Il nome è Andrea Dominijanni, e si tratta del primo testimone di giustizia della fascia Ionico-Calabrese: un imprenditore attivo nel turismo e nell’edilizia a Sant’Andrea Apostolo dello Ionio (provincia di Catanzaro) che per anni, come tutto il paese, ha pagato quote alle principali famiglie ‘ndranghetiste della zona, sotto la continua minaccia di ritorsioni violente – alcune, come racconta Sesti nello spettacolo, messe in atto nonostante i pagamenti, per pura affermazione di potere. Dal giorno della denuncia, nel 2015, la ditta di Andrea subisce perdite pari all’85% del fatturato, le commesse pubbliche spariscono e, soprattutto, inizia la vita sotto scorta, coordinata dal commissario Luigi Portesi, divenuto negli anni un amico oltre che un confidente della famiglia Dominijanni.

 

Grazie anche all’intercessione dello stesso commissario, a Sesti viene accordato il permesso di incontrare Andrea e di vivere con la sua famiglia per giorni: «finché non ci vai non ci credi», ci dice «c’è un’energia pesante dovunque, i muri ti guardano» e ti devi abituare alla continua sorveglianza dell’intero paese. «È diversissimo: lì se hai l’impressione di essere seguito è perché sei seguito, se ti sembra che qualcuno ti stia guardando è perché ti sta guardando»; come abbiamo sentito dal palco «in Calabria le cose non sembrano, sono». Per quanto estrema, l’esperienza diretta è però un elemento fondamentale per il lavoro di Sesti, che ha sempre voluto toccare con mano i temi e i luoghi di cui parla nei suoi spettacoli, ed è stata per lui una condizione indispensabile a una narrazione che si voleva onesta e informata.

 

Respirata per giorni «che sono sembrati mesi» l’aria di Sant’Andrea Apostolo dello Ionio, inizia il lavoro di scrittura, e si pone il problema di evitare il racconto drammatico («à la fiction Rai», scherzo io, trovando però la sua conferma): «io non posso venire qui e dirvi: “la mafia è brutta”, perché lo sapete. Io devo raccontare la cosa vera e renderla universale», far capire che «quella roba non è lontana da noi».

E allora ecco che, sul palco di Arzo, abbiamo assistito a una storia molto normale, a un solitario viaggio in macchina per andare a passare il Natale in famiglia, portandosi dietro soltanto un panettone («un dolce nato da un errore, che non doveva esistere: il primo dolce infame della storia»), a un’accoglienza calorosa e a un’abbuffata da allucinazioni. Sesti ci costruisce per gradi un quadro in cui possiamo inserirci facilmente, ci presenta i Dominijanni come una famiglia qualunque, come la nostra, e ci fa rendere conto di come quella realtà sia a nove ore di macchina da casa sua, tra persone a lui simili, in paesi che potrebbero essere i nostri; non vediamo quasi mai sulla scena il racconto diretto delle violenze e delle minacce, tuttavia ne sentiamo l’atmosfera, il continuo pensiero sullo sfondo, l’attenzione che bisogna prestare a non mettere le canzoni sbagliate, a non nominare determinati argomenti, a non pensare troppo. Un riscontro che arriva spesso, soprattutto dai giovani delle scuole (dove «lo spettacolo va molto bene» e le repliche sono state moltissime), è «vorrei sapere qualcosa in più», e in fondo significa che uno dei principali scopi è stato raggiunto: «perché le informazioni poi te le puoi cercare, per quello ci sono i giornali e i libri: io racconto solo la mia storia», e se questo crea attenzione sulla questione – fosse anche per una sola persona, fosse anche per un solo giorno – sarà comunque una persona e un giorno in più del solito nulla.

 

Una costante dei lavori di Alessandro Sesti – costante che contraddice quanto il suo personaggio ripetutamente dice in scena, e cioè che «le cose, quando le fai da solo, escono meglio» – è anche la presenza della musica dal vivo: «in realtà è prima di tutto un motivo tecnico. Non voglio musica extradiegetica perché esulerebbe dal piano della voce che il pubblico sente in diretta», e si tratta anche di un modo per costruire la fiducia di spettatori e spettatrici, che vedono con i loro occhi tutto ciò che sentono. Sulla scelta, invece, «mi sono affidato a loro: io non sono musicista», e così al clarinetto di Debora Contini si è aggiunto il contrabbasso, con Federico Passaro, e poi la chitarra di Federico Pedini. Il trio accompagna splendidamente la narrazione, seguendo e sostenendo la parola (anche se, sorride Sesti, «a volte io seguo loro e loro seguono me, non c’è una vera gerarchia»). Anche all’ironia, ci dice, tengo particolarmente, e cerco sempre di costruire una sequenza in cui «la presenza dell’ironia è rotta dal dramma, distrutto poi a sua volta dall’ironia», e il pubblico del Festival ha reagito molto bene in tal senso.

 

Ionica ha portato ad Arzo un tema importante senza drammatizzarlo oltre misura, senza indulgere in spiegazioni («è una questione di umiltà, non puoi pensare di essere più intelligente di tutto il pubblico: in generale, a teatro non si spiegano le cose») ma creando quella voglia di saperne di più e quell’apertura che erano tra gli obiettivi iniziali. Grazie alla testimonianza di Andrea, infatti, otto capi cosca provenienti da tre famiglie di ‘ndranghetisti sono stati arrestati, processati e condannati in via definitiva; il minimo che il teatro possa fare è raccontarlo.