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Questa è la bella vita che ho fatto

3 Settembre 2018

di Mara Travella

Una trilogia chiamata Terra Matta. Una voce, una sedia. Stefano Panzeri sulla scena non ha nient’altro, perché il resto è riempito dalla storia di Vincenzo Rabito, un bracciante siciliano semianalfabeta, autore di un’autobiografia tanto lunga e intensa da essere divisa in tre momenti (1899 – 1918; 1918 – 1943; 1943 – 1968).

 

Lo spettacolo è frutto del lavoro su quel testo sincero e vero di 1027 pagine, la cui lingua dice lo sforzo di afferrare l’italiano quando le readici della tua parola sono nella lingua dialettale. Il dattiloscritto, di questa vita maletretata, travagliata – chiamato dal suo autore Fontanazza – è Conservato all’Archivio Pieve di Santo Stefano, un vero e proprio luogo di memoria dove sono raccolte le scritture autobiografiche (in forma di diario, lettera o romanzo) di autori sconosciuti, di chi scrive per salvare dall’oblio il proprio vissuto.

 

Terra Matta è una storia personale e collettiva. Dentro c’è la vita della famiglia Rabito,e di sua moglie Neduzza e dei loro figli, Salvatore, Giovanni, Gaetano; e poi è la narrazione degli eventi che hanno scosso la Storia: le guerre, il fascismo, lo scontro politico. A partire dal secondo spettacolo s’inseriscono nel flusso del racconto tre donne: Antonietta, Rita, Brunilde. Tre storie di migrazioni fino in Argentina, uno dei luoghi in cui Stefano Panzeri ha portato il suo spettacolo.

 

Domenica sera, dopo l’ultima parte di «Terra Matta», l’attore ha risposto ad alcune domande sul suo spettacolo.

 

Una prima curiosità riguarda il lavoro molto lungo sul testo. Quali sono le modifiche che hai fatto rispetto all’originale?

Ho dovuto selezionare inevitabilmente, ma ho cercato di mantenere qualcosa di ogni aspetto di Vincenzo Rabito: una cosa bella, una divertente, una brutta, una tragica. Volevo rispettare la sincerità del suo scritto. Lui ha detto tutto, e anch’io volevo fare lo stesso, senza dimenicare nulla. Rabito ha scritto per ricordarsi della sua storia, non si poneva problemi di censura perché quello che stava scrivendo era per sé, e io ho cercato di prendere tutti  quello che aveva scritto e portarlo in scena senza santificarlo. Ad esempio, la prima parte dello spettacolo parla della Grande Guerra, e c’era il rischio di far vedere una vittima e basta, mentre l’aspetto interessante è il fatto che Rabito sia riuscito a stare sempre a galla, qualsiasi fosse la bandiera da portare, la maglietta da mettersi, la burrasca da affrontare.

C’è poi la questione del dialetto. Ti sei mantenuto fedele al testo utilizzando l’accento siciliano. Questo chiaramente ti ha permesso di avvicinarti di più alla storia di Rabito, ma allo stesso tempo poteva rappresentare un ostacolo in quanto la tua parlata è lombarda. È stato difficile appropiarsene, e come hai fatto?

Quello che mi ha colpito del testo è proprio la lingua, perché è fortemente teatrale. È la messa su carta di parole che Rabito ha sentito e ha detto tante volte. La lingua, per questa sua dimensione orale, era la porta per accedere al teatro. Toglierla sarebbe stato ricominciare da capo. Ho letto e riletto tante volte il testo. È una partitura: il fatto che sia un scritto-parlato, lo rende come uno spartito, c’è soltanto un modo di dirlo, per capirlo devi leggerlo ad alta voce, solo con la grafia non capisci qual è il suono che voleva riprodurre. L’autobiografia di Rabito è da dire a voce alta.

Tre voci di donne interrompono ad un certo punto la narrazione principale con digressioni riguardanti la migrazione dall’Italia all’Argentina. Volevi introdurre una voce altra, femminile?

La maggior parte delle storie che mi sono arrivate sono storie di donne, probabilmente perché sono loro che hanno mantenuto un pezzettino della radice, un ricordo della terra di origine. Inoltre tra i migranti italiani ho incontrato più donne e quelle che compaiono nella storia sono: Antonietta, che è di Aosta e vive ancora oggi ad Azul, un paese in provincia di Buenos Aires; Brunilde, che è di città di Castello e stava a Porto Madryn, in Patagonia; e Rita, che è di Bassano del Grappa e che sta a Tandil (Buenos Aires), ma ha vissuto tutta la vita a Montevideo dove è arrivata con suo padre, facevano biciclette. Questa è la macrostoria, lo scheletro, perché dentro alle storie di queste tre donne ci sono anche parole e ricordi di altre persone. Io ho trovato molto di più di tre storie, ma quello che ho fatto è stato riassemblare diverse vicende, diverse voci che raccontano una storia che in fondo è sempre uguale, perché i motivi per cui si parte sono sempre quelli: la fame, la famiglia, il lavoro.

Hai portato il tuo spettacolo fuori dalle frontiere italiane, in particolare in Argentina. Come è stato il rapporto con il pubblico?

A vedere lo spettacolo vengono tanti emigrati italiani. Non tutti capiscono la lingua, perché ci sono diverse coscienze di cosa vuol parlare italiano, alcune persone conoscono addirittura solo il dialetto dei loro padri. “Italiano” , anche lì, significa molte cose diverse. A vedere Terra Matta ci sono tutti quelli vogliono sentirsi raccontare la storia, soprattutto interessa molto la seconda tappa. In qualche modo le persone che vengono a vedere lo spettacolo sentono quel godimento nel commuoversi – come quando piangi per un film, da dire sembra quasi un ossimoro – , ma si commuovono perché quella storia gli appartiene. Il pubblico cerca qualcosa di familiare, assiste allo spettacolo per farsi emozionare. È un pubblico privilegiato e per un attore è il migliore che puoi avere.