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“Un mostro di acciaio” mascherato da progresso

27 Agosto 2024

Carola Fasana

Il 23 e il 24 agosto la collaborazione Fratelli Maniglio e Usine Baug porta ad Arzo la storia di Taranto, una piccola cittadina pugliese come tante: c’erano distese di ulivi e il ritmo della vita era scandito dal suono delle cicale. Un giorno però arrivò “un mostro di acciaio” mascherato da progresso, elargendo promesse di una vita migliore. Nel 1960, infatti, nel quartiere Tamburi, venne fondata la più grande acciaieria d’Europa, ILVA: L’America con un mare di opportunità era arrivata proprio lì, a Taranto.

Improvvisamente non c’era più né buio né silenzio: i rumori di produzione della fabbrica echeggiavano nelle strade e le sue luci intermittenti confondevano il giorno con la notte. Fumi scintillanti e polverine colorate si depositavano sui tetti, sui campi, sugli animali, sui cuscini, per i bambini indizi di magia, in realtà indizi di un inquinamento tossico, ben oltre i valori limite consentiti per garantire la salute umana.

Effetti luce disturbanti e prepotenti, rumori metallici e alienanti, una scenografia di veli di metallo che si spostano in aria e sul palco ricreano un’ambientazione futuristica e sinistra dove l’imponente fabbrica di acciaio viene umanizzata in una signora che fuma imperturbabile e non curante da più di 60 anni mentre le vite degli abitanti della città vengono stravolte dalla sua presenza. “La cattedrale”, “l’astronave”, “la merda”, “la giungla di giraffe d’acciaio, “l’America”.

 

“Ilva football club” Ispirato all’omonimo romanzo di F. Colucci e L. D’Alò, racconta la storia degli abitanti seguendo le vicende di una famiglia tarantina, una famiglia-Ilva, come tante altre. I performer, infatti, attraverso un profondo lavoro di ricerca in loco, negli archivi e con interviste si prefiggono l’obiettivo di parlare della città, ossia di quella che è e resta, al di là dello scandalo e della vicenda giudiziaria; perché Taranto non è, come stanno dipingendo i giornali, solo una dicotomia tra lavoro o salute. Infatti, la percentuale di Tarantini che lavorano all’Ilva è, oggi, piccolissima.

 

Protagonisti sono tre fratelli, Sergio, Matteo e Beppe, che convive con Maria e il loro figlio Nino. Quattro punti di vista diversi: colui che non ha mai voluto averne a che fare ma ha aperto un’attività grazie ai soldi dell’ILVA, colui che lavora in fabbrica e continua a lavorarci come una condanna, colui che si è licenziato e ha cercato di lasciarsi tutto alle spalle e colei che, da esterna, ha visto la fabbrica entrare prepotentemente nella sua vita. Poi c’è il dottore, colui che viene da fuori, dal nord, e della fabbrica ne aveva sentito parlare solo da lontano.

 

La voce prevalente è però quella del papà Beppe, che per l’amore del figlio trasforma la realtà di fronte a sé in qualcosa di sorprendente. Così la fabbrica, situata dietro la casa e il campo da calcio, diventa un’ astronave piena di luci oppure l’habitat di giraffe d’acciaio. Ed è proprio lì, nei corridoi di questa giungla argentata, che nasce la “Sidercalcio”, la prima squadra di calcio non professionista a partecipare alla coppa d’Italia. Il campo arrabattato di fronte a casa diviene il teatro della vicenda titanica di 11 operai del siderurgico, 11 eroi che, per una serie di incredibili coincidenze, arrivano a giocare addirittura contro l’Inter.

La drammaturgia, scritta collettivamente, si destreggia su più piani narrativi, linguaggi diversi, da quello giudiziario d’inchiesta a quello biografico, fino alla telecronaca sportiva e crea un intreccio fortemente dinamico e ritmico, alternando momenti divertenti a momenti più emotivi, a momenti documentaristici. In questo modo, lo spettatore è portato vorticosamente, senza accorgersene, se non all’ultimo, sempre più a fondo nelle storie dei protagonisti, dove segmenti narrativi che sembravano procedere in parallelo si fondono insieme.

 

 

E così la panchina dello spogliatoio della Sidercalcio, lì davanti agli occhi dello spettatore fin dall’inizio, si rivela per quello che è: il lettino di ospedale di Nino, un bambino di 5 anni con un tumore al cervello  sviluppatosi per via della quantità di diossina emessa dai fumi della fabbrica. La diossina è stata trasmessa attraverso l’utero della madre nel periodo fetale; infatti, i fumi scintillanti e le polverine colorate si depositavano non solo sui tetti, sui campi, sugli animali, sui cuscini ma anche dentro il corpo umano e di magico non avevano proprio nulla. Anche se magica è in un certo senso l’operazione fatta dal governo Berlusconi, dalla Ministra Prestigiacomo e tanti altri nel mascherare i dati allucinanti dell’avvelenamento di una città e nel far figurare un fabbisogno di acciaio spropositato.

 

Ph. Simone Mengani