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Cosa si dice, come lo si dice: Frosini e Timpano tra scrittura, forma e contenuti

22 Agosto 2023

Giacomo Stanga

Una caratteristica che i due lavori visti ad Arzo condividono offre lo spunto per un discorso sulla scrittura e l’autorialità: nel repertorio di Frosini e Timpano, infatti, si tratta degli unici due testi non scritti da loro. Gli sposi è, in origine, un testo di David Lescot, mentre Carne è stato commissionato a Fabio Massimo Franceschelli. «Ci interessano gli altri autori, in particolare quelli contemporanei: li leggiamo e ci incuriosiscono» (i due, proprio con Carne, hanno anche lanciato il progetto Pirandello ha rotto il cazzo: i classici siamo noi, proprio per valorizzare la drammaturgia contemporanea); «ovviamente bisogna trovare dei testi che ti corrispondano. Franceschelli è un collega e amico da tanti anni, che vede le nostre produzioni, e quindi quando gli abbiamo chiesto di scrivere un testo ha potuto tagliarlo su di noi. Gli sposi invece esisteva già: noi abbiamo conosciuto Lescot a Parigi nel 2015 nell’ambito di un progetto di scambio che si chiamava Face à face (poi confluito in Fabula mundi). Lui quell’anno fece un nostro spettacolo, Aldo morto, e ci piacque molto, soprattutto perché è un testo molto tagliato su Daniele e perché è una storia molto italiana, quindi non facile da adattare, ma lui fece un lavoro intelligente. Da lì ci siamo scambiati dei materiali, noi abbiamo letto dei testi suoi e abbiamo trovato Les Epoux, un testo molto nelle nostre corde anche perché ci occupiamo molto di storia, i nostri spettacoli parlano quasi sempre di eventi storici o comunque sociali».

 

In entrambi i casi, poi, è stato possibile rilavorare i testi in accordo con gli autori: Carne – su cui Franceschelli aveva dato carta bianca – è diventato molto più astratto di quanto le didascalie originali indicassero, e Gli sposi si è accorciato e asciugato, anche in collaborazione con Lescot, che nell’originale aveva trascritto ad esempio quasi per intero molti dei discorsi di Ceausescu che si sentono in scena. In questa fase di elaborazione, i due spettacoli hanno anche guadagnato le musiche, che giocano un ruolo diegetico importante. Ivan Talarico ha composto su misura tutte le musiche di Carne, mentre quelle scelte per Gli sposi servono a dare un’idea al pubblico non romeno dell’evoluzione musicale nel paese, dalla voce di Maria Tănase, autenticamente legata alla tradizione del Paese, alle musiche occidentali degli anni ’60 e ’70 tradotte in romeno fino all’esplosione apicale: «una canzone pop famosa in tutto il mondo e che però assomiglia a tutte le canzoni di tutto il mondo, il che aggiunge il discorso dell’ultraglobalizzazione post-‘89».

 

Questo punto apre la possibilità di parlare del finale dello spettacolo, e in generale dell’atteggiamento assunto nei confronti dei personaggi, un tema sempre interessante quando si trattano figure storiche e in particolare figure storiche canonicamente negative, come Frosini e Timpano hanno già fatto, su tutti, in Dux in scatola (2005). «Eravamo curiosi anche noi della Romania e di Ceausescu: prima di lavorare allo spettacolo sapevamo molto poco, quasi solo le immagini dell’ ‘89, come tutti. Forse chi appartiene a una generazione diversa si ricorda anche il Ceasusescu di prima, cioè quello di cui in Europa occidentale si parlava bene, l’unico simpatico del blocco sovietico, in un certo senso». Già alla base, quindi, un doppio giudizio. «Poi noi ci siamo informati, abbiamo letto, visto documentari e film, ascoltati la musica del periodo, e ci siamo fatti un’idea, nei limiti del possibile».

 

«In generale, nel nostro teatro, non vogliamo mai fare uno spettacolo a tesi, con già una risposta pronta. Il nostro lavoro è un po’ quello di scavare nella complessità degli eventi, che è una compessità che ci appartiene: anche le cose che stanno dietro di noi in realtà influenzano come siamo adesso e come pensiamo. Non prendiamo mai una posizione precisa, anche se poi magari abbiamo delle idee personali sull’argomento: facciamo emergere le varie facce del problema, e lasciamo al pubblico la possibilità di porsi delle domande insieme a noi. In Carne il processo è molto dicotomico, ma anche ne Gli sposi abbiamo cercato di affrontare criticamente la versione occidentale degli eventi che conoscevamo, anche andando lì a parlare con diverse persone e diverse generazioni. Per esempio abbiamo visto due guide turistiche darci versioni molto diverse, e una – poco più che ventenne – era proprio nostalgica; e poi abbiamo visitato i musei dedicati a quel periodo e abbiamo anche messo in scena lo spettacolo a Bucarest per i 30 anni della caduta di Ceausescu. Si respirava un’aria strana in città, tesa, al di là dello spettacolo che è piaciuto».

 

Quest’ambiguità si ritrova in scena: «dove potevamo rafforzare quest’impressione di una fastidiosa simpatia-tenerezza per dei personaggi che di base storicamente condanni abbiamo cercato  di metterla e di trascinarla anche con il finale, che nel testo non era esattamente così (l’idea che loro, tra virgolette, vengono ammazzati dal pop occidentale, non c’era)». E spesso, lo sguardo critico si giova dell’unione delle forme e dei contenuti. A contare particolarmente non è solo il testo, ciò che esplicitamente viene detto sulla scena, ma il come viene recitato: lui fermo a pugno chiuso e illuminato di taglio da una luce rossissima mentre lei balla sulle note di una improbabile Carrà romenizzata, la sorveglianza maniacale di telefoni e conversazioni presentata (letteralmente) a suon di barzellette, o l’appoggio dell’occidente rappresentato da tutti gli oggetti regalati ai due cognugi dai capi di stato americani, inglesi, svedesi, etc.

 

A chi guarda rimane quindi del lavoro da fare, dal punto di vista sia interpretativo sia, latu sensu, politico: «all’idea dello spettatore attivo fondamentalmente ci crediamo», a rischio di risultare divisivi. «Dipende sempre se lo prendi come un problema o no; essere divisivo potenzialmente ha un valore dialettico interessante, nel senso che le persone capiscono cosa pensano vedendo, leggendo, parlandosi, … Dalle posizioni opposte capisci cosa pensi tu. Già sullo spettacolo su Mussolini c’era chi diceva che se il pubblico prova pietà per il corpo del dittatore appeso allora lo spettacolo è fascista, oppure che chi non ha gli strumenti per capire poteva essere traviato: nella nostra forma mentis, in realtà, questo effetto è un valore, perché altrimenti sarebbe dirti come la penso io e come la devi pensare tu, seguendo una corrente pedagogica ed edificante che ultimamente è molto forte. Noi cerchiamo di creare delle emozioni e dei pensieri contrastanti, o almeno dei dubbi: e non è vero che ciò vuol dire non prendere posizione; è solo non far capire che posizione prendi, non far vedere la differenza tra quando stai dicendo qualcosa che pensi e quando stai mimando posizioni altrui. Altrimenti invece che andare a teatro fai una conferenza, o una messa, e metti tutti d’accordo».

 

L’augurio di Elvira Frosini e Daniele Timpano che il teatro continui a stimolare riflessioni e, soprattutto, a essere mezzo di confronto con le altre persone – «secondo noi è fertile che qualcuno veda lo spettacolo e si chieda perché altri vicino a lui reagiscano in maniera diversa» – chiude una ricca conversazione e, per questa edizione, la rassegna degli incontri con le compagnie in scena negli spettacoli serali.

 

 

 

Ph. Simone Mengani