Journal

Un teatro all'ascolto

21 Agosto 2021

Giacomo Stanga

Il rapporto tra mondo reale e rappresentazioni artistiche è da sempre uno dei grandi nodi d’analisi della critica e uno degli aspetti più affascinanti delle forme di creazione, qualunque esse siano. Quando a teatro si decide di portare non solo la cinquantennale storia della sezione italofona del Telefono Amico ma anche le esperienze reali di volontarie e volontari e le loro riflessioni su quanto quotidianamente si trovano ad affrontare, allora il confine a volte evidentissimo tra il mondo e la scena si assottiglia fin quasi a sparire. Un compito arduo quindi quello che la compagnia Grande Giro ha affrontato per mediare tutto questo materiale tramite il linguaggio del teatro; come iniziare ad affrontare un tema tanto delicato e così ricco di stimoli?

Innanzitutto il progetto ha preso avvio con delle interviste a turniste e turnisti del Telefono Amico: lunghe conversazioni tra attrici e volontari e volontarie che, svoltesi significativamente per via telefonica, hanno fornito alla compagnia ore di materiale sia aneddotico (racconti di telefonate particolarmente significative o condivisione di momenti di difficoltà, per esempio) sia emotivo (sensazioni, positive o negative, provate durante o dopo una chiamata, oppure senso di soddisfazione dei momenti formativi che – racconta qualcuno – possono aiutare a migliorare i propri rapporti interpersonali) da sbobinare, riordinare e cercare di trasmettere al pubblico. I primi pezzi del collage che abbiamo visto a Tremona erano pronti.

In parallelo si riassume poi la storia del servizio, dalle pionieristiche inserzioni su giornali londinesi negli anni ’50 fino alla fondazione, appunto nel 1971, della sezione Svizzera Italiana: si tratta della parte più realista del materiale, e la sua ordinazione è quindi più linearmente cronologica.

Il terzo elemento, per contro forse il più delicato, è quello che del dare voce a chi chiama: come affrontare il tema del disagio psichico, della depressione, della solitudine, evitando banalizzazioni e semplificazioni che certamente stonerebbero confrontate con le onestissime testimonianze dirette raccolte sul campo? In aiuto della compagnia viene qui l’opera – e in particolare un libro, l’ultimo: La psicosi delle 4 e 48 – di Sarah Kane, drammaturga britannica che, proprio in seguito a una lunga depressione e ad altri disagi di cui spesso si è trovata a scrivere, si suicidò nel 1999. Basandosi su una così vera testimonianza, per di più già adattata alla rappresentazione scenica e quindi poeticizzata a sufficienza da evitare l’eccessiva crudità, è stato possibile rendere con efficacia e sincerità anche il lato più scomodo della storia, in un certo senso dare un volto e delle parole al nemico stesso che il Telefono Amico combatte da così tanti anni. Proprio questi inserti sono quelli che più aiutano – nella scrittura e nella visione – a ricordare la pesantezza dei temi trattati, ma si rivelano poi anche il la per una soluzione positiva e per una possibilità di aiuto costruttivo a chi si trova a vivere situazioni di solitudine o di disagio: l’interesse drammaturgico sta infatti anche qui, cioè nel fatto che proprio scendendo nei luoghi più oscuri è possibile risalire, e che nei momenti di lucidità citati da Kane stia la chiave per chiedere e ricevere qualcosa, fosse anche solo un orecchio che ascolta, dall’altro. E ci sono momenti in cui, ci ricorda l’esperienza del Telefono Amico, un orecchio è tutto quello che serve.

A tessere insieme testimonianze dirette, squarci sulla psiche umana e progredire storico del servizio ci pensa la commistione di generi e stili che caratterizza i lavori di Grande Giro: le telefonate diventano danzate, le nevrosi umane a volte degli assurdi botta e risposta condominiali e altre delle canzoni, addirittura gli psicofarmaci si trasformano in maldestri e ridicoli pagliacci in un collage che rappresenta l’alternarsi delle telefonate che scandisce il turno. L’idea è proprio quella di trattare con onestà il tema, rappresentandone alti e bassi, momenti estremamente duri ma anche soddisfazioni e situazioni a cui tutte e tutti noi possiamo facilmente relazionarci senza però rinunciare a tutto l’arsenale che la forma teatrale mette a disposizione; che chi assiste allo spettacolo, insomma, comprenda il valore dell’ascolto e del non-giudizio, ma che non si dimentichi di essere a teatro, poiché proprio nella forza della scena e nelle risate e nei pianti che così facilmente la narrazione ci scuce si crea quel ponte verso la realtà che, misterioso, continua a incuriosirci e a farci riflettere sulla vita. Lo spettacolo Pronto? Io ci sono è in replica anche domani mattina alle 10.30 a Meride (Giardino del Roccolo).