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A dialogo con Irene Serini e Caterina Simonelli: “uno spettacolo in cui tutto è svelato.”

27 Agosto 2022

Carola Fasana

Mentre il pubblico fa il suo ingresso, Serini con uno zaino in spalla si muove nervosamente tra i vari posti della platea, non riesce a trovare una posizione. Ora corre, ora si siede, ora si rialza. È così che entrano in scena il binomio Serini – Mieli, performer e soggetto/a di indagine, finzione e realtà entrambi/e fusi/e proprio da questa difficoltà a collocarsi nel mondo e nella scena.

 

 

Percorrendo la vita di Mario Mieli viene destrutturata la realtà: le cose sono esattamente come sono percepite dal nostro occhio e contemporaneamente anche l’opposto. Come facciamo a fidarci di quello che vediamo, ma allo stesso tempo voler andare oltre?

Un cerchio da quadrare o un quadro da circolare?

La sedia che pende dal soffitto, per esempio, potrebbe essere tutto quello che noi vogliamo che sia oppure tutto quello che l’attrice ci dice che sia: se lei ci dice che è una balena bianca, allora lo è.  Oppure è solo una sedia e lei potrebbe benissimo fare lo spettacolo senza.

 

 

“La verità è che sono qui e che sto recitando. È tutto finto.”

L’attrice, infatti, si rifiuta di recitare ossia di salire sul palco come Mario Mieli e uscire come Mario Mieli. In questo modo non si coglierebbe la natura sostanziale della sua battaglia da rivoluzionario filosofo, un opporsi alla direttiva imposta dal capitalismo: l’uomo/donna non deve capire troppo, deve procedere per linee dritte separate senza porre domande, non deve fare errori se no viene tacciato di perversione.

Questo spettacolo come l’esistenza vuole andare per tentativi; uno spettacolo che volutamente non nasconde i propri errori, ma li mostra. Uno spettacolo che continua a costruirsi e a decostruirsi: le leggi implicite del teatro sono state sovvertite, in modo tale che il pubblico non sa cosa aspettarsi e non sa come dovrebbe reagire.

 

 

“Uno spettacolo in cui tutto è svelato.” Uno spettacolo che non divide ma cerca di unire, superando le barriere innaturali che sono sempre state erette davanti a noi: tutti noi siamo sia maschio sia femmina insieme. Mario Mieli ha sempre scalato ogni muro che si trovava dritto e alto di fronte a lui, portando avanti una battaglia per la libertà di tutti.

Il desiderio da liberare, come ci ricorda Raffaella Colombo nell’incontro in corte Mario è l’anagramma di amori, è quello infantile polimorfo e perverso, ossia un desiderio che coinvolge tutto il corpo e non ha una meta designata. L’attore poeta ci invita in una battaglia come unica possibilità di integrare gli opposti che coabitano in noi e di poter poi cambiare il mondo.

 

 

Mario Mieli, infatti, era: un/una pazzo/a ma anche una figura geniale, un uomo/una donna violento/a ma anche delicato/a, perverso/a ma anche puro/a come un/una bambino/a, magicamente gioioso/a ma anche profondamente arrabbiato/a.  Mario Mieli era ognuna di queste cose insieme.

 

A DIALOGO CON IRENE SERINI E CATERINA SIMONELLI

 

Perché partite dal corpo per comprendere e stanare gli stereotipi che appunto, come hai detto tu prima nell’incontro in Corte, subdolamente si insinuano dove non immaginiamo?

 

IRENE:  Due cose mi vengono da dirti, la prima è che si è sempre abituati a stare proprio anche fisicamente in una sorta di comfort zone, murati vivi dai nostri vestiti che sono come delle armature; ci presentano al mondo, fanno il lavoro per noi in qualche modo. Il corpo mi sembra essere quel luogo ormai sempre meno parlante in maniera consapevole. Dopodiché, nello specifico posso dirti che nel corso della mia storia e della storia di Caterina c’è stato questo incontro con la compagnia Atopos, una compagnia dove la stragrande maggioranza delle persone era di natura transessuale, transgender. Lì è stato forse, se non la prima, almeno la seconda volta in cui ho avuto forte, fortissimo la consapevolezza di quanto il corpo sia importante. È un luogo in cui si combatte una battaglia politica attraverso quelle persone omosessuali che scelgono di mutare il proprio corpo per dire una cosa al mondo che non riguarda solo loro stessi.

E Mario Mieli in qualche modo ha fatto questo. Cioè, lui investiva tantissimo fisicamente, attraverso delle azioni. Il corpo non è soltanto come quel luogo che noi possiamo modificare a nostro piacimento, ma è inteso anche come quel luogo che si può spostare, quella parte di noi che può occupare uno spazio e compiere delle azioni.  Molto spesso un pensiero alto ed elevato portato in scena e nella vita anche da intellettuali di altro livello non si accompagna da delle azioni.

Mario Mieli ha provato a fare delle azioni. Mario Mieli ha fatto anche teatro, l’ha fatto nel momento in cui hai capito che non bastava scrivere un libro ma bisognava fare qualcosa col corpo, con la voce. Tu che dici Cate?

 

CATERINA:  Perché il corpo è lo strumento che abbiamo a disposizione oltre che per il nostro lavoro anche per vivere, quindi, è lì che risiede gran parte del nostro essere e quindi fare un lavoro anche di consapevolezza, di che cosa porta il mio corpo o che cosa amputa il mio corpo serve nell’ottica di una scoperta. È po’ il tempio della mente.

IRENE:  Del cuore

CATERINA:  Il cuore secondo me è un muscolo… (ridendo) però del ginocchio e soprattutto dell’organo genitale. Ci sono, no, delle filosofie orientali che legano tantissimo la zona genitale a un centro di grande potere. C’è da dire anche una cosa, forse è una caratteristica dell’uomo moderno pensare a una sorta di divisione fra corpo e mente. Mario Mieli, che era un meraviglioso bambino questa divisione forse non ce l’aveva così così rigida o così cristallizzata. I bambini e le bambine si toccano nella patata poi si mettono le mani in bocca, esplorano il corpo dell’altro. È un elemento imprescindibile.

 

 

Nel laboratorio abbiamo lavorato tanto sullo spazio, su come, magari inconsapevolmente, collocandoci e situandosi in determinati punti dello spazio, emergano, in aggiunta a quelle che sentiamo nostre, anche tutte le varie identità che lo sguardo dell’altro ci ha attribuito. Oltre allo spazio cosa può fare emergere in maniera così forte queste identità e in particolare l’identità di genere?

 

 

IRENE: Qui mi rifaccio a un’altra lettura che ho fatto, di una filosofa politica che si chiama Flavia Monceri, lei ha indagato tantissimo le dinamiche di potere ovviamente e sposa anche una certa idea di ermafroditismo, cioè una consapevolezza del fatto che siamo entrambe le cose, sia maschio che femmina. Però viviamo in un mondo dove costantemente ci viene richiesto di essere una cosa soltanto o maschio o femmina. Come fare per avvicinarsi a questa forma di ermafroditismo? Lei è una persona che si veste da uomo, quindi non bisogna sottovalutare il vestito, che io prima ho chiamato corazza, è anche corazza per qualcuno, ma per altri può essere una forma di divertimento. Mario Mieli amava vestirsi da donna, Flavia Monceri si veste con la cravatta.

Se io adesso fossi portatrice di una certa femminilità ma indossassi la cravatta, creerei un piccolo cortocircuito assolutamente complice anche di una certa idea fashion; no? Adesso è piena in realtà nel campo della moda di persone maschi che portano la gonna insieme ai pantaloni… bisogna capire fino in fondo qual è il luogo in cui ha senso.

Io nello spettacolo, per esempio, mi chiedo a un certo punto come mai gli uomini nella società che viviamo quotidianamente non è così concesso di indossare la gonna, almeno non altrettanto come invece è ormai concesso alle donne di indossare i pantaloni. Questi sono piccolissimi gesti che richiedono comunque un grande coraggio, specie, mi viene da dire, agli uomini che decidono di evidenziare il loro lato femminile e quindi vengono percepite come persone che in qualche modo nella logica gerarchica perdono un po’ di potere e quindi si avvicinano alla fascia sociale che ha meno potere pubblico. Il vestito è un modo: giocare col vestito, pensare al vestito non soltanto come un luogo di rappresentazione della propria femminilità, della propria mascolinità ma come esibizione di entrambe le cose. Poi noi proviamo a dire nello spettacolo che un altro modo di lavorare è tanto anche sul linguaggio.  Anche questo pomeriggio parlavo dell’articolo da utilizzare: perché quando in un gruppo c’è una stragrande maggioranza di donne e anche solo un uomo si continua a usare il maschile e non si sperimenta una cosa, che sembrerebbe anche più logica da certi punti di vista, cioè il femminile, in quanto la maggioranza?

Adesso, per esempio, ci sono una serie infinita di possibilità che vengono date: questa U e questa ə/з, questo* impronunciabile, che si mettono tante difficoltà. Io stessa sono in difficoltà rispetto al linguaggio quando viene fatta una proposta così spietata, così innovativa rispetto alla lingua tradizionale, così impronunciabile.

Però oggi provavo anche a dirlo al pubblico, immaginare che l’attore o l’attrice, nel mio caso, non sia solo attore o attrice, ma colui e colei che fa l’attore e colui e colei che fa l’attrice, questo colui e colei che è qui con te adesso a rispondere alle domande. Trovare un escamotage anche molto personale come nel mio caso che però ti fa intuire una possibilità alternativa.

Dopodiché c’è il pensiero, c’è il ragionamento, c’è interrogarsi e scegliere. La vita è una scelta sempre spietata, scegliere dove collocarci fisicamente, linguisticamente, mentalmente.

 

CATERINA:    Aggiungerei che, se avessimo più tempo nell’evoluzione di questo laboratorio, forse avremmo potuto lavorare anche sulla relazione con l’altro da me, perché nella relazione con l’altro si fa tutta una serie di compromessi o di amputazioni della propria individualità. In teatro succede una cosa a volte che è bellissima, cioè che la relazione non è una relazione fra due, ma è una relazione a tre, che il mio essere più l’essere di qualcun altro crea un terzo essere che è polimorfo, in qualche modo, come nelle relazioni d’amore. Quindi sì, in qualche modo, un altro indicatore può essere la relazione che muta sia di genere che di età, perché a volte ti capita di metterti in relazione come un bambino di 5 anni e mezzo e poi con la stessa persona invece di entrare in contatto con la parte adulta, la parte maschile, la parte femminile. Quindi la relazione, secondo me, è un luogo dove si può giocare molto su sperimentarsi in maniera diversa.

 

 

In “Elementi di critica omosessuale”, Mario Mieli ad un certo punto dice:

“Chi aggredisce un omosessuale si mette il cuore in pace considerando che tutto sommato se un finocchio era una creatura così esile, così fragile, così aerea, così trasparente, così delicata, così deperita, così garrula, così musicale, così tenera, si poteva ucciderlo; come vetro veneziano aspettava soltanto il grosso e duro pugno che potesse frantumarlo senza neppure tagliarsi”

 L’immagine del vetro veneziano che si frantuma senza neppure tagliarsi… qualcosa che è destinato a rompersi quindi tanto vale farlo, pensate che oggi l’immagine dal di fuori sia ancora quella?

 

 

CATERINA:  Questa roba qua secondo me è molto legata all’omosessualità maschile, io istintivamente mi verrebbe da dire così.  Credo che questo sia dovuto a quella cosa che diceva lei prima, il fatto che un uomo che decide di sperimentare la sua parte femminile o che si identifica di più con la sua parte femminile, dove a femminile si associano tutte queste caratteristiche molto delicate, stilnovistiche quasi, compie una sorta di tradimento terribile nei confronti della virilità.

E c’è non soltanto il fatto di decidere di non usare quel potere che ti dà l’essere maschio, ma c’è anche proprio un giudizio sul fatto che questo tipo di virilità viene deprezzata dall’accostarsi all’altro. Una cosa che a me, per esempio, mi ha sempre impressionato è il tipo di atteggiamento che avevano i nazisti nei confronti dell’omosessualità maschile e omosessualità femminile. Per cui l’omosessualità maschile era veramente stigmatizzata mentre quella femminile, si era comunque condannata, però come donna potevi comunque servire da incubatrice o da altro. Il nazismo ha fatto emergere come non era così aleatoria come questione, ma era legata proprio a all’immagine della virilità come vertice di una gerarchia, vertice di un potere.

 

IRENE:  Mi fa piacere che tu abbia rintracciato quel libro, io lo considero ovviamente potentissimo ed è un luogo dove puoi rintracciare tantissime citazioni ancora estremamente incandescenti che ci aprono ad un altro immaginario.   Il mondo è pieno di uomini anche un “po’ femminili” che però sono eterosessuali, così com’è il mondo è pieno di uomini potentemente virili che sono omosessuali, così come “una robusta istitutrice tedesca può essere perdutamente etero, così va il mondo”. Il mondo è quel luogo magico in cui tu puoi effettivamente trovare l’esibizione della forza l’esibizione anche della fragilità. Personalmente considero oggi giorno molto più forte colui e colei che riesce a esibire le proprie fragilità, che riesce a entrare in contatto anche pubblicamente con le proprie fragilità. 

Nello specifico della fragilità che si esibisce qua la prima cosa che mi viene in mente è anche una tendenza umana a distruggere ciò che è portatore di purezza, cioè quando siamo di fronte a qualcosa che associamo a un’espressione di fragilità ma pura, può perché siamo terribili in quanto umani, c’è un istinto a uccidere. Lo spettacolo che hai visto oggi finisce con una citazione di Platone: quando l’essere umano esce dalla caverna, cammina sotto la luce abbagliante del sole, poi ritorna. Il filosofo si chiede se non gli diranno che questo suo essere uscito lo ha fatto tornare indietro con gli occhi rovinati, e non lo ucciderebbero allora, potendolo avere tra le mani. Non uccideresti colui che si è concesso una libertà che tu non ti stai concedendo?

E questo lo dico a malincuore, perché riguarda tutti gli esseri umani, quindi, riguarda anche me che sto parlando. Soffro nel vedere la libertà di un altro che io non mi sono concessa. La giudico. Ecco mi ha fatto scattare questa suggestione.

 

Ph. Gabriele Spalluto