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Nel nome di quale padre?

20 Agosto 2021

Giacomo Stanga

Nel mio nome
«Io scrivo di ciò che mi mette scomodo sulla sedia in quel momento». In tutti gli spettacoli di Mario Perrotta c’è una componente autobiografica: se il dato puramente anagrafico dell’essere diventato padre è dunque premessa fondamentale al lavoro svolto, come in ogni rappresentazione artistica di valore è poi l’incontro con l’altro ad arricchire, dinamizzare e sconvolgere la riflessione, ed è dunque dall’inizio dell’età scolare del figlio e, quindi, dall’incontro diretto con i “colleghi” che l’attore si è ritrovato a mettere particolarmente in dubbio il suo essere genitore – non tanto, ci dice, per cercare un bene e un male, un buon modo di essere padre e uno cattivo, quanto piuttosto per farsi delle domande, per interrogare il suo modo di vivere questa condizione così diffusa eppure non sempre compresa, con la consapevolezza che, nella virtù e negli errori, già il porsi delle domande può essere una prima ancora di salvataggio e uno strumento utile a migliorare i rapporti famigliari.
Dallo sguardo interno dell’autoriflessione, istintiva in ogni genitore, l’attenzione di Perrotta si è poi spostata verso ciò che più immediatamente lo circondava e, già solo dal piccolo sistema sociale in cui si trovava inserito, è da subito emerso l’interesse di approfondire il tema dell’essere padre e dell’architettura famigliare in Italia (per antonomasia il “popolo della mamma”, ci ricorda) e non solo.
In quanto abbiamo visto in scena c’è quindi anche un po’ del Mario Perrotta genitore? No, o meglio non direttamente. Ovviamente il tono dello spettacolo non rende la domanda molto lusinghiera, ma possiamo senz’altro dire – e ce l’ha confermato lo stesso autore – che nella parziale mostruosità dei padri portati sul palco c’è anche un po’ delle paure, dei timori e dei dubbi che ogni giorno ci si può porre sul proprio ruolo e sul modo in cui lo affrontiamo: si tratta in questo senso di uno spettacolo che parte da una riflessione personale e che ritorna, dopo il filtro esterno della società, a interrogare il singolo sulle proprie abitudini, come ad avvertirci che le storture estremizzate nei personaggi potrebbero annidarsi anche in noi, dal momento che cessassimo di farci delle domande e di riflettere sul nostro agire. Una catarsi individuale che si fa collettiva, il cui parziale lieto fine ci può riappacificare con la scena ma meno facilmente con noi stesse e noi stessi.

Nel loro nome
Per mettere concretamente sulla scena queste sue indagini tipologiche sulle disfunzionalità parentali, Mario Perrotta si è avvalso anche della consulenza dell’amico Massimo Recalcati, celebre psicoanalista che proprio di questioni simili si è a lungo occupato a titolo professionale. Dalle principali categorie di padri disfunzionali che Recalcati gli tracciava, Perrotta andava desumendo i tre personaggi che abbiamo sentito raccontarci la loro storia e i loro problemi. Un colto giornalista siciliano il cui figlio si è barricato in stanza perché da suo padre, che ha un approccio puramente intellettuale a tutti gli aspetti della vita, vorrebbe soltanto un po’ di silenzio, un ricco imprenditore napoletano che vive in modo malsano il suo rapporto con la figlia, agendo da amico, da complice e financo da amante sullo strascico di una sua personalissima sindrome di Peter Pan, e un impacciato caporeparto veneto, emotivamente poco maturo e a cui manca ogni piattaforma possibile (a partire già dalla lingua, visto che a stento si stacca dal dialetto) per imbastire un dialogo con il figlio di cui entrambi avrebbero bisogno: riuniti in un unico quasi archetipico palazzo, queste persone così distanti per cultura, provenienza, posizione sociale e mentalità si trovano riunite in questa carrellata di famiglie storte che ci scorre davanti e che porta con sé uno sguardo più esorcizzante che giudicante, e più emotivo di quello che forse ci si aspetterebbe. Sono esempi riconoscibili di difficoltà comunicative diffusissime e, proprio perciò, lasciano aperto uno spiraglio (chi più e chi meno) all’empatia del pubblico.

Nel nostro nome
Dipingere delle famiglie storte, e, in particolare in questo capitolo della trilogia, dei padri storti, non vuol dire addossare ai padri e alle famiglie le colpe di tali storture. Anzi, se queste situazioni sopravvivono e si diffondono è proprio perché non esiste davvero un modo di essere dritti, almeno non finché alcune deformazioni sociali resteranno presenti e ben radicate nella collettività: e allora Nel nome del padre può diventare una riflessione sul patriarcato risalendo alla radice etimologia della questione, un tentativo di comprendere come meccanismi di stampo maschilista rimangono pervasivi delle nostre vite e dei nostri comportamenti al di là del nostro genere, delle nostre idee o delle nostre intenzioni. La “funzione padre”, ci dice lo stesso autore, non è sempre assunta dal padre biologico, e questo solleverebbe un altro numero di problemi e di potenziali soluzioni: osservare la questione dal punto di vista di alcune correnti psicoanalitiche ha aiutato molto la creazione dello spettacolo, pensato proprio come una messa in evidenza del problema e come un’espressione di quel ruolo anche sociale e politico che il teatro ha e deve avere. Se nessuno sembrava porsi delle domande, insomma, Mario Perrotta ha pensato di porsele per tutte e tutti e di portarcele davanti, per obbligarci almeno a una riflessione, quando non a una totale messa in discussione di concetti fondamentali come quelli famigliari.
Proprio come nella carriera teatrale i maestri e le maestre vanno ammirati, raggiunti e poi superati (meglio, scherza Perrotta riportandoci alcune sue esperienze dirette, senza incontrarli mai di persona), i padri che si muovevano su quel palco rispondono forse a un bisogno di spezzettare la realtà in bocconi più digeribili perché si possa, il più in fretta possibile, passare oltre. Come il corvo di Uccellacci e uccellini ci ricorda – e vale per i maestri quanto per i padri, sembra suggerire lo spettacolo – «I maestri sono fatti per essere mangiati. In salsa piccante. Devono essere mangiati e superati, ma se il loro insegnamento ha un valore, ci resterà dentro».