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La morbidezza dell’asfalto: resoconto dell’incontro «il teatro e il carcere»

20 Agosto 2023

Giacomo Stanga

Alle 16:00 di sabato 19 agosto, nella Corte dei Miracoli, hanno dialogato Eduardo Di Pietro, Renato Bisogni, Mario Cangiano e Marco Montecatino (per il collettivo lunAzione, al Festival con Il colloquio) e Alessandro Sesti e Cecilia Di Donato (in scena con House we left). Moderate da Marco Mona, le due compagnie hanno iniziato presentando i rispettivi progetti, e hanno poi discusso sui temi della conoscenza dell’ambiente carcerario, delle difficoltà tecniche incontrate durante la ricerca sul campo e delle diverse sfaccettature che assume il rapporto tra il “dentro” e il “fuori”.

 

Ai margini della detenzione sono, in un certo senso, sia le persone rappresentate da House we left, confinate in una sezione numericamente minoritaria del carcere di Reggio Emilia in cui lavora Di Donato, sia le tre donne in fila per incontrare i parenti carcerati impersonate dai tre attori de Il colloquio. «Nessuno sa veramente cosa si prova in quella situazione», spiegano, «dopo le molte interviste fatte nella fase di raccolta delle testimonianze ti fai almeno l’illusione di sapere cosa provano, ma contemporaneamente sei consapevole che quello che conosci in più è solamente un frammento di una realtà complessa che non coglierai mai nella sua totalità».

 

«Quando Cecilia è venuta da me a raccontarmi la sua esperienza di laboratori nel carcere» racconta Sesti «ho subito trovato interessante il punto di vista di chi, da fuori, può entrare in questi luoghi. La narrativa sulla prigione è carica di stereotipi e superficialità, specialmente nei prodotti d’intrattenimento, e ora ci si presentava l’occasione di entrare a toccare con mano, in prima persona e senza retorica, un’alterità che da parte mia conoscevo poco. E questo di approfondire, credo, è uno dei ruoli fondamentali di qualsiasi prodotto culurale».

 

Certo è una realtà a volte paradossale; già Marco Mona, aprendo la discussione, ricorda come l’idea per cui il dentro è uguale al fuori sia una pia illusione, e Di Donato conferma sin nei dettagli più concreti, ai quali forse normalmente non penseremmo. «Se decidi, che so, di fare un esercizio con una pallina da tennis, devi organizzarti settimane prima, perché dentro non la puoi portare. Poi capitano situazioni assurde coi permessi e le scarcerazioni: è l’unico luogo in cui, se ti manca un’attrice all’ultimo momento, sei contenta, perché vuol dire che è uscita. Ma più di tutto manca l’elemento fondamentale del teatro, cioè uno spazio. Non c’è angolo del carcere che non ti ricordi dove ti trovi, non c’è il minimo margine per la finzione. Lo devi trovare, in qualche modo, e le prime volte può essere un lavoro (e un ambiente) molto respingente. Ma poi mi sono accorta di una grande differenza: delle mie lezioni, lì, avevano davvero bisogno. Ci tenevano davvero, se non andavo era un problema, si preparavano a lungo. Rispetto a dei corsi serali di altro tipo, c’era una necessità per me inedita». Forse, in tal senso, il teatro può avere un ruolo quasi terapeutico. Sicuramente può fornire linguaggi sconosciuti a molte persone detenute per esprimere le emozioni che provano. L’attività teatrale può dunque diventare quel viaggio in orbita su un missile che una delle donne de Il colloquio vorrebbe offrire a tutti i detenuti: un cambio di prospettiva, un mezzo per manifestare concretamente davanti a loro l’esistenza di un’alternativa. E la narrazione, da sempre luogo di domande, serve proprio per assumere il punto di vista altrui senza giudizio morale.

 

Molti sono stati gli spunti del confronto con il pubblico, e in comune tra le due compagnie c’è il desiderio e quasi la necessità di raccontare per far conoscere il più possibile le realtà della detenzione: cosa vuol dire crescere a Ponticelli, ad esempio, senza romanticismi ma anche senza giudizio. Come ci dice il duo di House we left, è stato proprio facendo lo spettacolo nel carcere che l’ha ispirato che si è compreso davvero il bisogno di portarlo fuori. Di molto altro si è discusso e di molto altro parlano, in scena, i due spettacoli: dal tentativo di restituire una dignità alle vite spese in detenzione all’analisi sociale dei fenomeni criminali, dal legame di codipendenza che si crea tra le persone rinchiuse e le loro famiglie, punite per colpe non loro, alla questione sanitaria, ma nulla riassume meglio i molti discorsi fatti che un dettaglio dello spettacolo di Davide Mesfun, Sguardi a confronto (l’attore non ha potuto partecipare all’incontro, ma il suo pezzo è stato più volte citato): al suo primo permesso dopo 12 anni di reclusione, Mesfun sente i piedi sprofondare. Non è l’emozione, dice. Mi sono reso conto che l’asfalto è molto più morbido del cemento.

Sono questi i dettagli a cui chi sta fuori non pensa. I bicchieri di vetro di cui non si conosce più il peso, abituati ormai alla plastica, la mancanza dell’acqua calda, della possibilità di vedersi allo specchio per intero, di cambiare dei trucchi vecchi di anni, di portare un accappatoio al marito.

«La libertà», dice in scena Mesfun, «non è una condizione fisica. È mentale».

 

E così, mentre quel cancello del confine nazionale rimane ancora, per il momento, solo in parte valicabile, mentre stella dopo stella una processione di Pleiadi si sta forse formando, almeno in certe nostre fantasie, e mentre da qualche parte sono ancora le sei e mezza e qualche fila per i colloqui inizia a formarsi, il pubblico di Arzo e Meride continua a rimbalzarsi gli interrogativi che gli spettacoli visti hanno suscitato, con l’augurio che la finestra sul carcere non si chiuda al termine del Festival, e che fuori ci stia sempre più cielo.

 

 

 

Ph. Simone Mengani