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La scimmia siamo noi

22 Agosto 2021

Giacomo Stanga

La scrittura de La Scimmia si ispira al racconto Una relazione per un’Accademia di Kafka, nel quale Peter the Red, un primate addestrato che gira l’Europa come fenomeno da baraccone, si presenta in università per spiegare la sua condizione a un attento pubblico di studiose e studiosi. Di Kafka rimane molto, oltre all’ispirazione iniziale, e in particolare il carattere fondante dell’opera e la sua in qualche modo disperata ironia, ma il testo è stato interamente riscritto per permettere all’attrice in scena di sperimentare con i generi e di utilizzare al meglio il suo arsenale stilistico.

 

Come ci ha descritto lei stessa, infatti, eccezion fatta per Nati in casa (spettacolo peraltro visto ad Arzo nel 2005), i lavori di Giuliana Musso si distaccano dallo scolasticamente puro teatro di narrazione per avventurarsi nel teatro d’indagine, cercando di combattere l’irrigidimento delle etichette di genere anche tramite un ripensamento del ruolo dell’attrice in scena: la relazione con il pubblico, come sempre nel teatro popolare, è diretta, esplicita – durante lo spettacolo le luci in platea si accendono, facendo immediatamente di spettatori e spettatrici gli «egregi signori e stimate signore dell’Accademia» a cui l’attrice-personaggio si rivolge – e nell’ibridazione delle forme le definizioni tecniche non reggono la prova della realtà, rendendo impossibile inquadrare lo spettacolo in una o nell’altra casella stilistica. Un rapporto, quello con il pubblico, che ha le sue premesse nell’idea che il teatro possa essere un’esperienza che permette di rilasciare parti di noi altrimenti trattenute, di invitare il nostro io giudicante a farsi da parte per lasciare spazio a un io non controllato, a un sé «radicale e radicante» che, secondo l’autrice, è possibile liberare anche da spettatrice.

 

Viene così naturale, citando il potere del teatro di sollevare temporaneamente l’io razionale dal suo incarico, discutere delle idee che hanno nutrito la scrittura dello spettacolo: perché la scimmia che ci si presenta davanti racconta proprio la storia inversa, ovvero quella di un animale che, per sfuggire alla sua cattività, comprende che dovrà farsi uomo, imparare a vivere nella nostra società, rinunciare a ogni cellula della sua natura per adattarsi al contesto nel quale è stato violentemente costretto. In scena vediamo il grande spettacolo di varietà di un animale che, per obbedire alle convenzioni, reprime il suo profondo sentire rendendosi conto solo a intervalli di avere un naturale bisogno di tornare a essere davvero sé stesso.

Il percorso della scimmia, non a caso pensato da Kafka in un momento storico di grande crisi, è dunque una riflessione sull’umano come animale sociale, e l’autrice cita Carole Gilligan per chiarire il conflitto che tutte e tutti noi, più o meno consapevolmente, viviamo tra ciò che sentiamo e la relazione con il mondo che ci circonda: in tale sistema, la nostra educazione, la nostra evoluzione e il nostro inserimento altro non sono che patteggiamenti, compromessi, adattamenti a una narrativa dominante tossica e violenta. Particolarmente forte da adolescenti, il dissidio fra questi due poli viene solitamente risolto tramite la repressione di alcuni aspetti del nostro io, che la scimmia ci rende evidente e grottesca sul palco: in questo senso la scimmia siamo noi, evoluti a tal punto da dover aspirare alla libertà, che essa non conosceva prima di guadagnare il lume della ragione esattamente come i pesci non hanno idea di cosa sia l’acqua. La razionalizzazione senza emotività ci ha ridotto a non sentire più il legame con la nostra componente animale, e la violenza del sistema si traveste da autocontrollo: solo ogni tanto, come è avvenuto ieri sera, sentiamo ancora mancarci la terra sotto i piedi.

 

Il mediatore di tale epifania è non a caso un buffone, per antonomasia colui che non patteggia, che non si piega e che perciò vediamo con divertimento ma anche con una certa diffidenza perché sappiamo che può farsi anche cattivo senza preavviso. Si tratta di un omaggio – tardivo, scherza Musso – a questa importantissima figura della commedia: se, infatti, la comicità scorre da sempre nelle vene del teatro popolare, non si tratta solo di fare ridere, anzi. In una commistione sempre maggiore tra riso e pianto, l’ironia può lasciar spazio a finestre di lirismo nelle quali la scimmia diventa una metafora della quale è lasciata a chi siede in platea la libertà d’interpretazione, al punto che smuovere l’emotività del pubblico verso il comico o verso il tragico diventa quasi la stessa cosa. E se è proprio la mancanza di emotività (o la sua repressione) che ci riduce spesso in catene e se le emozioni sono un fatto di intelligenza e quindi un utile strumento cognitivo, ecco che riattivare questo lato del ragionamento umano e affiancarlo al logos che tanto la scimmia si vanta di padroneggiare diventa imperativo e salvifico: che si torni a sentire, che si impari da questo primate sfaccettato, sempre un po’ differente, complesso, ad ascoltarsi, a prendere consapevolezza dei patteggiamenti sociali e a metterli in discussione.