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È Shakespeare, it’s ok (?)

24 Agosto 2024

Giacomo Stanga

«È un classico», dicono più volte le due sorelle portate in scena da Chiara Fenizi e Julieta Marocco, ed effettivamente, nel Re Lear, a Goneril e Regan i crismi del classico non mancano affatto: sorelle maggiori della favorita Cordelia, gelose e malvage, tradiscono il padre alla prima occasione e causano una guerra che si concluderà con la morte di entrambe.

 

Ecco quindi salire sul palco due personaggi archetipici di un certo teatro e di un certo tipo di storia, due personaggi sui quali il giudizio del pubblico non può che essere di univoca condanna, due personaggi che non possono sfuggire al fatto che – volenti o nolenti – sono stati disegnati così.

 

Ma qualcosa, fin da subito, stona. O meglio, consuona in modo anomalo. Il modo in cui le due parlano, i loro movimenti, la loro ricerca di un colpevole nella platea: sembra che Goneril e Regan abbiano perso contatto con la loro realtà e si trovino in una dimensione diversa, assai più moderna. Come dicono loro stesse, «è colpa dell’inglese, non si capisce nulla. Neanche noi capiamo nulla». E così, tra una lezione di lingua (partendo dall’immancabile «the pen is on the table») e un invito a uccidersi a vicenda (ma «in modo creativo», perché «è molto più facile morire che uccidere»), il pubblico entra lentamente nel mondo di queste figlie in fuga dal loro passato, dalla trama che le ha sempre ingabbiate, da loro stesse.

 

A scandire i momenti del confronto tra le due protagoniste sono anche dei perentori interventi del padre, re Lear in persona, che dall’alto sembra redarguire le figlie: «sei ancora arrabbiato per quella cosa che ha fatto lei?» Ma anche qui il dialogo è a senso unico, le risposte non arrivano: il father è ridotto a figura stereotipata, a pura funzione (e d’altronde, «è morto da cinquecento anni… un padre assente»). In modo simile anche le tempeste, proprio quelle che nelle tragedie «fanno morire i vecchi» fornendo occasioni perfette per efferati delitti, non sembrano poter risolvere l’impasse delle due protagoniste, che tutt’al più possono offrirsi a vicenda un bicchiere di cicuta ma, fuse in una, non possono certo pensare di ingannarsi.

 

«E voi lì a guardare»

Un momento di svolta nella dinamica dello spettacolo arriva quando Goneril e Regan iniziano a coinvolgere il pubblico nei loro giudizi sulla tragedia, e in particolare su chi vi assiste da secoli con i medesimi atteggiamenti al limite del voyeurismo: «che schifo, che scandalo, che scempio, … che Shakespeare!» Le trame più sordide, i tradimenti più eclatanti, i drammi più palpitanti, i brothers che fanno sons con le mothers e poi i fathers li scoprono e li kills, gli assassini, gli sporcaccioni, i maleducati, i guardoni, i dogs che mangiano i cats: ma, ci assolviamo, «è Shakespeare, it’s ok!»

Grazie allo schermo del “classico intramontabile” possiamo mettere in scena tutto, appellandoci al principio di autorità e rimanendo comodi al nostro posto mentre davanti a noi i soliti personaggi compiono le solite azioni ributtanti e fanno le solite fini crudeli e melodrammatiche. Oggi due di questi personaggi – stralunati, fuori contesto e fuori controllo – sono di fronte a noi e ci chiedono: «Dopo tutto quello che abbiamo fatto per voi, questo è il ringraziamento?»

 

Alla fine, di eredità (e di regina) «ce n’è una sola»: il pubblico sa che, nella versione ufficiale, l’onore non spetterà né a Goneril né a Regan, ma intanto guarda le due azzuffarsi per un vestito, una mano, una parola e, alla fine, condivide forse l’idea che – in scena ma anche in platea – «meglio essere che non essere». Nonostante tutto.

 

Ph. Simone Mengani