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Raccontare «rimanendo sul confine»

1 Settembre 2019

Mara Travella

«Quando mi viene un’idea, prima di tutto c’è qualcosa che mi affascina e in cui in qualche modo sento  sbrilluccicare la mia immaginazione»: così esordisce Stefano Beghi quando parla del suo lavoro teatrale, sorride e ha gli occhi che (appunto) sbrilluccicano.

Ad Arzo Stefano ha portato Simplon e Rimanendo sul confine. Ovvero: la volta che rincorsi il fante di cuori, accompagnato dal musicista Marco Prestigiacomo, che ha reso con le sue note non solo luoghi, tempi, e movimenti, ma anche tutte quelle sensazioni e quelle emozioni che la parola non può dire.

Si tratta di due spettacoli che pur nella loro diversità – l’uno il racconto dello scavo del Sempione letto in chiave ‘western’, l’altro una storia di contrabbando giocata sulla metafora di una partita a scopa – sono accumunati dal presentare uomini che desiderano valicare un confine, reale e metaforico, perché di là «c’è sempre qualcosa di meglio». Una condizione che – come ha rivelato nell’intervista – l’attore ha provato sulla propria pelle: originario di Varese, anche lui si è sentito dire che oltre la frontiera non ce l’avrebbe fatta ad arrivare, e invece…

Cosa c’è nell’officina di questi due spettacoli?

Stefano: Simplon e Rimanendo sul confine sono due lavori diversi ma hanno come punto di contatto il tema delle frontiere viste dagli occhi di coloro che le abitano, che le costruiscono, che le hanno calpestate rimanendoci. «Rimanendo sul confine» è il modo che noi abbiamo di raccontare. Per quanto riguarda i materiali il primo spettacolo, ossia Rimanendo sul confine, nasce dai racconti di persone che hanno vissuto direttamente quegli anni di contrabbando. Io trovavo molto interessante parlare di contrabbando, e anche Marco: avevamo letto dei libri e delle antologie di racconti. Ma per Rimanendo sul confine abbiamo avuto una sorta di ‘angelo custode’, un finanziere in pensione, ora scrittore: Sergio Scipioni – che nel nostro spettacolo è un po’ il personaggio del Califfo – che ci ha a sua volta fatto incontrare i contrabbandieri. Quello che raccontiamo nel nostro spettacolo è vero: queste persone che erano avversarie in una partita di frode erano abitanti magari dello stesso paese, condividevano gli stessi problemi e frequentavano gli stessi bar. Quando questo fenomeno è finito le persone sono rimaste in contatto, ogni persona ci indirizzava a un’altra perché tutti si conoscono. Non tutte, poi, ci svelavano il loro nome. Quello che raccontiamo è vero ma non è nella giusta sequenza: abbiamo raccolto tutti gli episodi, li abbiamo condensati, mescolati e messi in quattro personaggi.

Simplon invece è una storia ambientata tra il 1898 e il 1905, per cui è troppo vecchia per avere testimonianze dirette. Per prima cosa abbiamo dovuto fare una ricostruzione storica molto accurata. C’erano fatti di cronaca ma c’erano ovviamente buchi narrativi stratosferici. Abbiamo ricostruito il clima dello spettacolo attraverso le immagini dello scavo, e sono proprio queste che ci hanno svelato la grande verità: gli scavi del Sempione erano il Far West. È a partire da questa iconografia che abbiamo scelto di fare un western. Mancava però una storia, e questa si è costruita su un episodio scatenante: nelle cronache storiche viene detto che l’abbattimento del velo centrale era deciso per giorno preciso, ma poi, non si sa perché e chi l’abbia deciso, rispetto a quanto era stato prefissato l’esplosione è stata fatta la notte prima. Di fronte a questo «buco narrativo» io mi sono immaginato che ci fosse un operaio in rivolta che pensa di «fregare tutti».

Quanto c’è di te – abitante di una zona di confine – nello spettacolo ?

L’urgenza di raccontare questa storia come autore sta nel fatto che io trentacinquenne (allora trentenne), mi riconoscevo in una vita che sembrava non aver possibilità di andare oltre. È come se da artista, da giovane, da uno che voleva fare qualcosa, ad un certo punto avessi la percezione che mi si costruisse una barriera attorno, fatta di quello che non si può fare. Non perché è vietato ma perché è uno status quo delle cose. A maggior ragione per noi che abitiamo la frontiera è ancora più forte, perché la Svizzera era off limits. Io sentivo che quell’esperienza del contrabbando rispondeva alla sensazione di avere un mondo troppo chiuso, come se quella linea di confine incarnasse il limite dell’ambizione. La politica, l’economia, la società, la geografia ci chiude in una terra ma noi vogliamo avere il diritto di essere più di così. Io mi riconosco in quel non si può, nella volontà di superare quel confine imposto – ti dicono che non c’è futuro, non c’è speranza, va tutto a ramengo, i teatri chiudono – e mi sono chiesto: “chi l’ha detto, chi l’ha deciso, che è impossibile?” Per quello nello spettacolo ad un certo punto si parla di una linea di confine creata di proposito. Ad un certo punto nello spettacolo si dice ci vuole un perché.

In Simplon il discorso sul confine è ancora più evidente perché in mezzo c’è una montagna, che è una barriera grande ed evidente, ed andare dall’altra parte può diventare una fissa. Quando mi sono imbattuto nella storia del traforo del Sempione mi sembrava interessante perché l’immagine che ho avuto di partenza è stata questa: chissà cosa hanno provato gli operai che hanno visto la luce dall’altra parte dopo sette anni sotto terra. Io mi sono detto: “Cos’hanno visto?” e la risposta è stata “Esattamente quello che c’è di qua”. Da questo parte un’altra riflessione: al di là dell’economa e degli Stati, la condizione umana è quella di essere eternamente insoddisfatti. Ci viene la fissa che di là sia sempre meglio. Quella di andare oltre è un’ambizione tradita. È come se le frontiere ci mettano nella testa l’idea che esiste un’altra cosa e noi subito pensiamo che sia meglio. Addirittura in questo spettacolo quello che c’è dall’altra parte noi l’abbiamo identificato con l’oro, ma l’oro dall’altra parte non c’è: non esiste El Dorado. Una delle battute che riassume perfettamente il concetto è questa: «Forse noi finiremo questo buco nella montagna ma per noi non ci sarà gloria, non ci sarà oro, non ci sarà fortuna, non ci sarà futuro, perché il futuro ha un sorriso prepotente sulla faccia».

In «Rimanendo sul confine. Ovvero: la volta che rincorsi il fante di cuori» si racconta la storia come fosse la lezione sulla partita a scopa perfetta. Come mai?

C’è un episodio vero, che ci hanno raccontato le persone che abbiamo incontrato: alla mattina quando si rientrava dopo la notte di lavoro – chi da una parte, chi dall’altra – c’era un forno aperto dove si incontravano tutti, chi beveva il caffè, chi mangiava un panino, chi semplicemente si riposava. La dimensione del bar era il cuore, il momento, l’incontro. Mi raccontavano che si giocavano a carte la rivincita, perché era davvero tutto quanto era successo, era solo un gioco.