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“Kakuma Fishing in the desert” - un nowhere, da qualche parte, mentre il mondo dorme.

25 Agosto 2024

Carola Fasana

Laura Sicignano decide di portare il pubblico con sé in questo viaggio di esplorazione e ricerca verso Kakuma.  Irene Serini ne diventa la voce mentre Susannah Iheme il corpo: la voce della donna bianca che va a cercare di capire qualcosa di incomprensibile e il corpo nero del campo, di chi è arrivato o nato lì e per cui il campo è semplicemente quotidianità.

 

 

 Kakuma in swahili significa “nowhere”, ossia posto che c’è ma non esiste, “un non-luogo”, una distesa nel deserto infinita di baracche e polvere dove la gente arriva e per una media di 26 anni non esce più. Un limbo dove vivono 270 mila persone. Una bolla nel deserto che si autoalimenta. Kakuma è uno dei campi profughi più grandi del mondo tra sud Sudan e il Kenya nell’Africa orientale. Kakuma è il luogo dove i volontari e gli aiuti umanitari entrano ed escono continuamente mentre lì tutto resta in attesa.

 

 

Cosa si può attendere lì, nel deserto, mentre il resto del mondo sì è dimenticato della tua esistenza? La speranza. La speranza di far parte di quell’1% che verrà ricollocato in una zona ricca della terra. 1% di 270 mila. La speranza di poter un giorno avere una vita fuori dal campo. Fabien è l’1%, evirato da dei ribelli per cercare di salvare la madre dallo stupro e lasciato a dissanguarsi per strada. Lui andrà a Montreal, non sa più né dove siano i suoi fratelli né dove sia sua madre ma ha la speranza che magari in quel posto così lontano…

 

 

Tutto sembra immobile dall’occhio esterno di bianco, ma in realtà le 270 mila persone sono venute a patti con la crudezza del deserto e sono riuscite a coltivare e persino a pescare nel deserto “fishing in the desert”, perché la vita va miracolosamente avanti anche se il mondo si dimentica della tua esistenza. I bambini vanno a scuola, non ci sono biciclette, quindi, camminano due ore sotto il sole nel deserto per poter andare a lezione. Un team di insegnanti locali accoglie i bianchi come se fossero Dio, ma in fondo sono bianchi come Gesù, mentre loro sono neri come Satana. Si organizza una festa ogni volta che un nuovo bianco arriva a visitare le scuole e i bambini fanno un balletto per loro.

 

 

 Bianchi – neri; liberi – prigionieri; volontari – profughi. Impossibilità di essere uguali anche se si sta lì uno di fronte all’altro e ci si stringe la mano. Infatti, in un palco composto da tavoli, sedie e scatole accostate in un caotico equilibrio, Irene e Susannah si scrutano, si annusano, si rincorrono, scappano l’una dall’altra, si sfiorano, ma non sono mai sulla stessa retta. Una sopra il tavolo, l’altra sotto, una sul palco, l’altra arrampicata in alto a toccare le luci, una al buio, l’altra in luce, una sdraiata, l’altra in piedi.

 

 

Father Lasantha Deadrew, che ha gestito il campo per vari anni, dice che si sente un rifugiato ogni volta che torna lì, ma sa di non esserlo. “Il campo ti uccide” afferma una delle operatrici. Sì,  ti uccide perché sai di essere dall’altra parte, perché sai che c’è una distanza incolmabile tra noi e loro, perché sai che tu sei privilegiato puoi andartene e loro no. Sai che puoi toccare delle vite, aiutare delle donne violentate, affiancare dei bambini disabili, portare una bimba tutta ossa a scuola e farla scendere dalla Jeep. Ma fai davvero la differenza? Questa resta la domanda viva in ogni operatore che sa di essere libero mentre loro, gli abitanti di Kakuma, sono prigionieri.

 

 

E così, come tutti, anche Laura è pronta a tornare e lei, il campo, il corpo nero, a mano a mano sembra scomporsi, si aggira per il palco e sposta le sedie, i tavoli, denuda la superficie del palco, si arrampica in alto e toglie il fondale, svelando l’architettura spoglia, senza scenografia. Un desiderio anzi no, un grido che chiede di buttare giù i veli e di guardare la realtà nella sua crudezza: i bianchi tornano, mentre Kakuma resta lì, in attesa.

 

 

 

 

Ph. Simone Mengani