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Maniaci d'Amore: un teatro di desiderio, condivisione e comunicazione

23 Agosto 2022

Carola Fasana

Durante lo spettacolo, il campo da basket dei giardini delle scuole si trasforma in Sciazzusazzu di Sopra, una cittadina alquanto peculiare che, anche se in apparenza lontanissima dal resto del mondo, dista solo mezz’ora di volo da esso. A Sciazzusazzu di Sopra, dal punto di vista degli abitanti a Sciazzusazzu di Sopra, ci sono i buoni, i belli, quelli normali, mentre a Sciazzusazzu di Sotto, sempre dallo stesso punto di vista, le persone sono strane, hanno le antenne, puzzano, sono brutte e le donne rubano i mariti.

Avendo chiara questa fondamentale differenza ci è premesso l’ingresso in città: due sdraio al centro del palco, un telo di plastica, che fa da fondale, e due abitanti del posto ci danno il benvenuto: Teresa (Luciana Maniaci) e sua madre Clarice (Francesco d’Amore).

 

Clarice, pettegola di professione, entra subito in fibrillazione quando vede che “c’è la gente, Teresa”, si mette in posa e ora è pronta a fare il suo show. Teresa guarda il pubblico con gli occhi disincantati di una prigioniera e la madre con una sorta di compassione.

Teresa è incinta e, per risolvere il problema, dovrà sposarsi con il figlio del macellaio, un uomo vero, tutto di un pezzo; Inoltre è apparsa in città una scritta sul muro che enuncia: “TERESA STACCA POMPINI ALLA STAZIONE”.

 

Così come è presto svelato lo scopo dello show di Clarice – convincere, gli abitanti del paese, ossia il pubblico, che la sua Teresa non è quella Teresa – si palesa anche un altro grande protagonista della vicenda: il muro. Un muro che diventa la fotografia dell’evoluzione dell’enigma che lentamente affossa il paese e miete vittime.

La prima di queste vittime, in realtà non è proprio una vittima, perché non si è nemmeno buttata dal tetto dell’edificio incriminato, ci ricorda Clarice, è Teresa; non quella che stacca pompini alla stazione, ma colei che li posa solo al fidanzato.

 

Con un linguaggio ironico, crudo, libero di chiamare le cose con il loro nome, viene narrata la storia di pregiudizi e stereotipi che isolano e progressivamente soffocano, ingabbiandoli in schemi prestabiliti, gli abitanti di un piccolo posto, in cui la carica più alta è la pettegola.

Però in questa realtà pietrificata nel tempo ci sono due ribelli: Teresa che ha il sogno di fuggire in un luogo dove non si ha paura di dire la verità e non si deve nascondere di essere una donna libera sessualmente e “l’uomo tutto di un pezzo”, il figlio del macellaio che ama gli animali.

 

Post. Scriptum: il pezzo è tutto in maschile sovraesteso perché è così che si crede parlino a Sciazzusazzu di Sopra.

 

 

QUALCHE DOMANDA CON I MANIACI D’AMORE…

 

 

Teresa con un sorriso ci fa capire che solo scrivendo la propria identità, o comunque una parte, sul muro si può veramente essere liberi/e. Quali altri modi ci possono essere per scrivere se stessi/e sul muro?

 

LUCIANA: Allora intanto è una questione poi di presa di posizione, cioè voglio rivendicare un’identità diversa da quella imposta; o no, perché magari non voglio, ma se lo voglio è sempre una lotta. Che poi la ricerca della propria identità non è mai data se non c’è un percorso di ricerca; io spesso faccio la metafora di Ulisse che parte per la guerra e quando torna a Itaca, dopo che Penelope ha cucito tutto il tempo e scucito, ritorna, si fa vedere. Lei gli dice “non sei tu”, non lo riconosce e lui le risponde “ma come non sono io? Sono io. Questo letto l’ho costruito con le mie mani da un legno d’ulivo. Lì lei sapendo che lui conosce questo segreto capisce che effettivamente è lui. É un lui diverso, è un lui che ha fatto un viaggio, quindi Penelope non ha tutti i torti!  É come se nel viaggio della vita possiamo costruire una nostra identità o no o solo in parte. Una parte magari si libera e cerca, una parte fa l’avvocato come il padre. Poi su certe tematiche, cioè la libertà femminile la libertà sessuale della donna lì è sempre una lotta di un certo tipo così come l’affermazione dell’omosessualità. Per esempio, io personalmente non conosco nessuna persona omosessuale che quando l’ha dichiarato ai propri genitori non ha pianto, anche se i genitori lo accettano tranquillamente; perché già solo dirlo era un’affermazione di un’identità. Era vederlo. Insomma, possiamo scegliere di essere tutti come Ulisse o no. Poi la vita è complessa, può essere che non riusciamo fino in fondo a sviscerare tutto quello che abbiamo, però stare nella lotta credo per me è l’unico modo di vivere.

 

FRANCESCO: Sì! Integro solo dicendo che penso che ogni volta che si rivendica uno spazio di libertà e lo si fa vestendosi in un certo modo praticando un certo tipo di relazione o entrando in un certo modo sono atti pubblici che si fanno e che rivendicano, prima ancora che una identità, una libertà. E questo è un atto politico, quello di andare nel mondo e dire OK anche se sono un uomo non mi ritrovo in tutti questi stereotipi che mi sono stati imposti. Quindi sì, se sono emotivo piango, se mi voglio vestire da donna lo faccio, se voglio mettere lo smalto… anche se lo smalto è ormai diventato un gesto più che altro fashion. Però insomma se voglio mettermi la gonna o se sono una donna e voglio essere sessualmente libera lo sono e lo rivendico. Rivendicarmi per questa libertà è un atto politico ed è come lo scrivere sui muri, lo facciamo ogni volta che usciamo di casa per certi versi.

 

 

 

Le tre parole che riassumono la vostra ricerca teatrale.

 

LUCIANA: Sicuramente connessione con le proprie parti sensibili, cioè con le parti di sé ancora non conosciute. Non credo che abbiamo mai fatto uno spettacolo che non ha portato poi a un’evoluzione personale, in qualche modo. Quindi, come dire, connessione con le parti di sé ancora non conosciute. Questa sicuramente è il più importante. Un’altra poi è la ricerca dell’ingresso nel mondo anche dell’altro, spesso facciamo personaggi che non siamo noi e anche la ricerca fisica. È anche conoscenza dell’altro, il teatro. Conoscenza di ciò che tu non sei, cioè ricerca di ciò che sei e che non sai e ricerca di ciò che non sei e che, però, sai. Che poi è anche un po’ il senso delle storie, no? Le storie ci riguardano sempre ma sono storie di altri e quello apre la curiosità. E passa anche attraverso il corpo. Poi sempre e comunque qualcosa che ha a che fare con il non stare nella comodità, nel comfort. Tutte le volte che, per esempio, potevamo avere magari una vita più stabile economicamente facevamo uno spettacolo, che è ovviamente… Cioè, non so come dire, tutte le volte che potevamo fare qualcosa di più ordinato poi cercavamo il disordine. Il teatro è anche un modo di continuare a stare in una marginalità e io ci sto bene, mi permette di vedere le cose.

 

FRANCESCO: Desiderio, perché secondo noi questa questione di cercare la libertà passa dal desiderio, cioè che essere connessi con il proprio desiderio, capirlo e non è facile capire qual è il tuo vero desiderio e non quello magari imposto da fuori. Questo ti porta anche a fare delle scelte artistiche che non sono necessariamente legate alle mode teatrali ma cosa che ti piace, e non è facile. Condivisione perché comunque noi, per esempio, scriviamo insieme, ci dirigiamo insieme, costruiamo gli spettacoli insieme.  Difficilmente riusciremmo a fare questo lavoro da soli, anche perché ci rendiamo conto che questa condivisione ci permette di trovare, di più, il nostro desiderio. Sembra paradossale in questo momento in cui uno dice, sai, da solo capisco… No, farlo in due è meglio!

 

LUCIANA: Meglio male accompagnati che soli!

 

FRANCESCO: E poi comunicazione perché per me è importante parlare al pubblico, e non al pubblico settario del teatro di ricerca sperimentale, ma a tutti. Stando anche nella ricerca, ma in contatto con chi ci ascolta. Magari facendo anche delle cose che non sono assimilabilissime ma stando sempre in comunicazione, in contatto con chi ci ascolta.