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Un vento comune: teatro e anarchia

26 Agosto 2024

Giacomo Stanga

Edy Zarro, che da anni è attivo nella scena libertaria locale e non solo, ha aperto l’incontro con un’interessante panoramica sul movimento anarchico ticinese (a partire dal recente dossier L’altra Svizzera) e sulle esperienze locali (ad esempio quella degli anarchici di Clivio), ribadendo che, al di là del ruolo di ricettacolo per i transiti nord-sud, l’anarchismo si è radicato sul territorio ticinese ed è sempre stato presente, con tempi e modalità differenti.

 

Il dialogo inizia poi ripercorrendo le tracce dei gruppi anarchici d’inizio secolo, che spesso proponevano proprio eventi teatrali (oltre, ad esempio, alle serate musicali) con il doppio obiettivo di diffondere gli ideali libertari e di raccogliere fondi. Questa modalità era ancora viva nella Reggio raccontata nello spettacolo, dice Carullo, anzi: proprio i cinque di cui si parla in Umanità nova avevano organizzato diverse serate, arrivando anche su palcoscenici di un certo rilievo. In un certo senso, questo legame è ancora vivo nell’operazione della compagnia: «abbiamo sempre trattato temi marginali, e ci interessava quella dei moti (e dei cinque) perché è una storia negata. Dopo il ’70,  proprio in seguito ai moti, le tracce del movimento anarchico sono sparite», e si è persa anche molta memoria di quei fatti, che oggi sono semisconosciuti. I luoghi che quel movimento era riuscito a conquistarsi, come la Baracca, sono spariti. «Dal punto di vista della mia generazione», continua Carullo, «è un mistero, un enigma come questa spinta libertaria fortissima si sia improvvisamente esaurita, forse abbia fallito. Parliamo di una generazione che si è ribellata ai padri, cosa che per esempio io non ho mai fatto; al di là del colore politico – perché poi i moti di Reggio hanno finito per essere capeggiati dalla destra – la gran parte della gente che scese in piazza non sapeva nulla dei retroscena politici: lanciò sassi e bloccò la città solo perché sognava un futuro migliore. Quella spinta lì non c’è più, e forse è di quella forza che avremmo bisogno anche per fare teatro». O controteatro, per seguire le orme della controinformazione. «Ho iniziato a leggere tutto quello che leggeva lui», racconta Carullo, «e ho scoperto i molti mondi possibili all’interno dell’anarchismo, che non è un diktat, un’ideologia dogmatica: come il teatro, appunto, non dovrebbe avere delle regole che non si possono discutere».

 

Lo spettacolo, in effetti, racconta un piccolo pezzo di storia, un fatto forse poco conosciuto (sulla sottile differenza tra evento storico ed evento e basta si interroga il narratore nella sua premessa), ma suggerisce molto di più: cita Piazza Fontana, il golpe Borghese, la stagione delle bombe sui treni. «Cerchiamo un confronto sugli eventi: infatti doveva essere uno spettacolo leggero, facilmente trasportabile. È fatto con cinque sedie (che poi in realtà cinque sedie sono complicatissime da trasportare – ride Minasi – ma questo è un altro discorso) proprio per poterlo “muovere”. Certo che farlo in Calabria è stato diverso: la gente nel pubblico a volte si ricorda, conosceva i protagonisti. In quegli anni, poi, i fascisti erano la maggioranza, quindi è successo che qualcuno, vergognandosi, ci abbia confessato di essere stato coinvolto dall’altra parte della barricata».

 

Anche Zarro, coetaneo di Angelo Casile, dice di ricordarsi la vicenda, che aveva ovviamente avuto una grande eco nell’ambiente: «lo spettacolo ha risvegliato molti ricordi, anche perché descrivete una Reggio estremamente borghese e provinciale, che ha molto in comune con il Ticino di quegli anni: un cantone appena uscito dalla miseria, governato da un’élite di arricchiti, periferico e provinciale per sua natura». Anche a causa di questo parallelismo, «ho apprezzato il finale, che mi ha un po’ riappacificato»: un padre che, dopo i fatti, dice in una semplice frase una cosa molto forte, che rimane con il pubblico. «Erano anarchici. Erano giovani, forse un po’ incoscienti. Ma avevano ragione»

 

La discussione, animata e partecipata, ha poi coinvolto anche il pubblico, mettendo a confronto generazioni e letture della realtà differenti. Per citare lo spettacolo, ha spirato «un vento comune che sospingeva le nostre idee individuali».

 

Ph. Simone Mengani