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«È tutto vero»: il mondo visto (quasi) dormendo

18 Agosto 2023

Giacomo Stanga

È l’una di notte quando un gruppo di persone – saranno una cinquantina – esce dalla corte Scacchi di Meride in silenzio. Chi parla lo fa a bassa voce, alcuni ridacchiano, altri iniziano a prepararsi una sigaretta o a organizzare il rientro a casa: nulla di questa scena indica che, pochi minuti prima, è finito uno spettacolo del Festival: non c’è stato l’applauso, tanto per cominciare, e poi che orario sarebbe per andare in scena? Beh, è l’orario perfetto per Ho sonno. Il mondo ad occhi chiusi, di Vittorio Ondedei, un viaggio al confine della coscienza durante il quale un uomo stanchissimo espone i suoi buoni motivi per non volersi addormentare. Addormentarsi, dice, è pericolosissimo. E se poi non ti svegli? Chi ti garantisce che, una volta abbandonato il controllo, sarai in grado di riprendertelo?

All’inizio ci sembra una follia, o una boutade puramente ironica: l’umanità intera si addormenta tutti i giorni, perché mai dovremmo averne paura? Eppure nelle parole dell’attore c’è qualcosa in più, di non riducibile a una sua particolare idiosincrasia; c’è una specie di disperazione divertita, derivante forse anche dalla reale stanchezza che lo accompagna in scena (Ondedei non dorme la notte prima di andare in scena). Il pubblico ride molto, soprattutto all’inizio, ma piano piano viene assorbito dal vortice di argomentazioni e ragionamenti, scorre mentalmente l’elenco di motivi che gli si costruisce davanti (dalle suore ai bruchi, dai dittatori agli antichi popoli mesopotamici, dai rumori notturni ai sogni ricorrenti) e comincia a comprendere – come capita in molti lavori di Vittorio – la logica dietro quella che pareva solamente una stramberia.

 

Proprio il rapporto con il pubblico è uno dei fondamenti dello spettacolo, e da lì iniziamo la nostra conversazione:

 

«infatti è uno spettacolo che io faccio preferibilmente a terra, allo stesso livello del pubblico. È una questione di tono generale: in scena sono uno che parla alle persone direttamente, non c’è nessuna impostazione davvero teatrale – e nessun testo fisso – quindi il discorso fluisce. Il pubblico in questo senso diventa fondamentale, e a seconda delle situazioni da lì arrivano anche stimoli, interventi e si può creare un vero e proprio dialogo, soprattutto quando ci sono dei bambini e delle bambine. Per loro il tema del sonno è importantissimo, hanno molto più da dire rispetto a un adulto, ed è facile seguire quello che ti dicono ad esempio sui peluches, sui mostri o sulla paura del buio. Potresti parlarci per ore».

 

Durante lo spettacolo ripeti spesso: «è tutto vero». E anche se forse non possiamo prenderti in parola sulla scrittura cuneiforme, si capisce che c’è qualcosa di molto reale e onesto dietro questa paura di addormentarsi.

 

«Il gioco drammaturgico è proprio quello che il pubblico non capisca mai realmente se io sto recitando o no. È un fondamento che però ho capito dopo, facendolo e parlandone con critici e attori teatrali: sono loro, vedendolo da fuori, che me l’hanno detto. Io inizialmente non ci avevo pensato, ma è una conseguenza del fatto che in scena gioco con elementi veri: della mia biografia, di racconti che ho sentito o di storie famigliari. Quindi offro una sorta di vero rimiscelato, e l’effetto sul pubblico è disorientante (in senso positivo: lo si vede anche dalle reazioni molto diverse di chi viene a vedermi)».

 

Un altro elemento interessante è il finale: sin dall’inizio sappiamo benissimo che, volente o nolente, dovrai addormentarti, eppure la conclusione senza applausi, lasciandoti lì sdraiato sul tuo letto, ha un che di straniante rispetto alle abitudini teatrali.

 

«In realtà è una reazione spontanea: se c’è uno che dorme esci in silenzio. In una sola replica il pubblico ha applaudito. A me piace molto l’idea dello spettacolo che finisce senza il gesto rituale a cui siamo abituati, in fondo fa anche parte della ricerca sui passaggi da uno stato a un altro. In mancanza dell’applauso, però, molti cercano reazioni alternative, quello sì. Spesso le persone vengono a toccarmi, che di base è molto strano, ma si vede che per loro questo gesto crea una sorta di conclusione alternativa, come un ringraziamento personale. Forse in realtà applaudiamo sempre per simulare un contatto con chi sta in scena, toccandoci le mani in mancanza d’altro.

Poi c’è un altro elemento, e cioè che io mi addormento davvero; poi, a seconda delle situazioni vengo svegliato dal custode del teatro o da qualcuno dell’organizzazione, però in quel momento sto dormendo, e questa è ovviamente una situazione che spiazza».

 

Mi è sembrato che questo spettacolo, più che il risultato di una ricerca, sia un punto di partenza da cui esplorare questo mondo al confine tra il sonno e la veglia: dopo 10 repliche, cosa ti sembra di avere imparato?

 

«Sicuramente ho imparato a sezionare il momento dell’addormentamento. Sento davvero di averne un controllo maggiore, di iniziare a capire come si fa ad addormentarsi, che è una delle domande che mi pongo sin da piccolo e che stanno alla base dello spettacolo. A me è sempre piaciuto fare le cose, ho imparato presto a parlare, a camminare, a scrivere, … avevo un atteggiamento per cui tutto si può fare: basta capire come si fa, e si fa. E il sonno sfuggiva a questa logica: come si fa ad addormentarsi? Non te lo puoi spiegare davvero. E quindi questo spettacolo qui è quasi un esercizio appunto di sezionamento: penso cosa sta succedendo, analizzo tutti i passaggi, penso a cosa sto pensando, e in questo gioco mi addormento. Come se il cervello andasse in cortocircuito.

Un’altra cosa è che leggendo testi scientifici e letterari sul sonno ti accorgi di come sia un elemento sottovalutato proprio dal punto di vista culturale. Pensate quanto sappiamo sul cibo, come ne esista una cultura, quasi un culto, e poi pensate in proporzione a quanto tempo passiamo dormendo e quanto mangiando. Il sonno è quasi la metà della nostra vita, eppure ne sappiamo pochissimo. Si sente spesso di qualcuno che va in vacanza in un luogo per via dei cibi tipici, ma mai nessuno dice: “vado in Engadina perché lì si dorme bene”. Ultimamente ci sto attento, e per esempio mi accorgo in quale tipo di stanze dormo meglio, o su che tipo di letti (anche perché dormo spessissimo fuori per lavoro), però non è che sia un argomento di cui parli in giro. Forse dovremmo discuterne di più.

Per il terzo insegnamento invece torno al pubblico. Succede sempre che le persone dopo vengono da me a raccontarmi le loro storie sul sonno; perché è un’esperienza personalissima, e ognuno ha qualcosa da dire. Storie di insonnia, di persone che si addormentano solo in certe posizioni, o che sentono gli stessi rumori che racconto nello spettacolo. Sono tutte esperienze che confermano la mia idea che, benché se ne parli sempre in chiave personale, ci sia un elemento culturale molto forte nell’atto di dormire e di avere sonno».

 

 

 

Ph. Simone Mengani