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Come una specie di vertigine. Libertà e autodeterminazione tra Calvino e attualità

23 Agosto 2024

Giacomo Stanga

Come una specie di vertigine non è uno spettacolo su Calvino: è uno spettacolo sui concetti di libertà e di autodeterminazione che prende spunto dall’opera calviniana.

 

Per l’autore, la riflessione sulla libertà nasce da una crisi di quel concetto illuminista per cui la propria libertà finisce dove inizia a ledere quella altrui: secondo Perrotta, negli ultimi anni la libertà è diventata sempre di più solipsistica, come se essere liberi volesse dire solamente fare quello che ci pare, indipendentemente dagli effetti delle nostre azioni su ciò che ci circonda.

 

Come sempre, «quando un tema mi mette scomodo sulla sedia», dice l’autore, «scrivo». Ma come scrivere su un argomento così ampio e così astratto? Questa domanda si è rivelata appunto l’occasione per affrontare finalmente l’opera di Calvino, che già da diverso tempo tentava la scrittura di Perrotta. «È un autore che in molti dei suoi romanzi si è interrogato sul concetto di autodeterminazione. Mi sembra che lì stia un nucleo importante della sua opera: Calvino è un razionalista, è fedele al dettato illiminista, ma conosce troppo bene l’animo umano per non sapere che poi in pratica, nella realtà, le persone sono fondamentalmente individualistiche, egoiste». Il barone rampante, Palomar, Lecosmicomiche: sono tutti esempi di situazioni che inizialmente paiono idilliache ma che a un certo punto conoscono un inversione di segno: «Cosimo, che chi ha letto Il barone rampante nell’adolescenza ricorda come un personaggio libero in modo assoluto, integerrimo, in realtà arriva al momento di dover fare un compromesso, di rinunciare a una parte di sé per vivere appieno l’amore che prova per Viola, e decide di non farlo. Da quel momento in poi, letteralmente, impazzisce. È un libro disperante, nella seconda parte, perché mette in scena questo scacco tra l’ideale assoluto e la sua realizzazione nella realtà. E Calvino ci dice che è troppo comodo starsene in alto, sugli alberi, e giudicare gli altri; che bisogna anche sporcarsi le mani». In fondo, anche con infinito spazio e infinito tempo a disposizione, i due “vicini di galassia” Qfwfq e Kgwgk riescono a litigare.

 

In scena, la parola è data a un personaggio che definire di secondo piano è dir poco: un nano tetraplegico che viene intravisto e descritto brevemente ma in modo molto nitido dal narratore della Giornata d’uno scrutatore. Egli, in quanto personaggio calviniano, conosce le storie di tutti i suoi colleghi personaggi, e le giudica dalla posizione di chi non ha le infinite possibilità che hanno loro ed è costretto a vedere quelle opportunità continuamente sprecate (vorrebbe, dice, «vedere dove va la gente che cammina»). La contrapposizione, continuamente evocata, tra un «qui dentro» e un «lì fuori» permette di coinvolgere anche il pubblico nel discorso del protagonista e di far riflettere chi vede lo spettacolo su come sta approfittando delle libertà e dei privilegi che possiede. Dare la parola a un personaggio che non parla è già di per sé un primo passo verso la conquista di una forma di libertà, anche perché «il nano se la prende questa parola, è una parola scomoda, che si conquista, quasi si ruba, e che non rinuncia a nulla; che biasima gli altri per come vivono e per come sprecano le loro occasioni (che poi sono le nostre). Spero che costringa il pubblico a pensare perché, quando fai di tutto perché qualcuno pensi, stai facendo qualcosa di politico, che è quello che cerco sempre di fare nel mio lavoro».

 

Un monologo a flusso continuo, che fa fluire un personaggio nell’altro grazie soprattutto a una forte componente musicale: «ho cercato di far precipitare ogni personaggio in uno stile musicale diverso, per cui mi sono ascoltato molta spoken-word, molto rap, anche molta trap. La scrittura è stata difficile, perché l’italiano funziona molto bene per alcune sonorità (ad esempio se si scrive in metro) ma tutte queste vocali possono essere un problema per il ritmo. Volevo che restasse serrato, così che il pubblico stesse dentro il pezzo per tutta la sua durata, e avesse tempo solo dopo per pensare». Una specie di vertigine, appunto, che insinui qualche dubbio tra le pieghe di ideali condivisi come la libertà e l’autodeterminazione.

 

La stessa giornata d’uno scrutatore, in fondo, pone un quesito molto simile a chi legge: Calvino (il racconto è autobiografico) si trova a fare da scrutatore al Cottolengo di Torino, dove un senatore locale ha voluto un seggio per permettere agli ospiti di votare; idealmente un gesto nobile, ma che nella realtà si traduce in un plebiscito per la DC grazie alle suore che accompagnano in cabina tutti i votanti. Combattuto tra teoria e prassi, il narratore si interroga sui suoi valori e sul senso di difenderli in un contesto sempre più prosastico e incattivito: allo stesso modo, Perrotta riesce a stimolare la riflessione su parole che sono sempre più soltanto parole, toccando alcune corde davvero universali: «pensavo di aver scritto un pezzo troppo “duro”, che non avesse abbastanza livelli di lettura per funzionare: e poi invece lo spettacolo ha avuto successo anche in contesti inaspettati, ad esempio nelle matinée per le scuole. Non ho ancora capito perché» scherza, «ma evidentemente c’è qualcosa di molto emotivo che parla in modo diretto».

 

E se n’è accorto il pubblico di Arzo, che ha partecipato attivamente all’incontro in Corte dei Miracoli e che ha applaudito a lungo al termine dello spettacolo.

 

 

Ph. Simone Mengani